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Labirinto trap

Ivan Carozzi racconta “L’età della tigre” tra Sfera Ebbasta e la Dark Polo Gang: tra disperazione nelle stories e cultura dell’ostentazione.

di Gabriele Ferraresi

Per anni l’Italia ha vissuto male questioni legate al conflitto di interessi, da quel momento è una buona idea dichiararlo. Quindi lo dichiaro: sì, conosco Ivan Carozzi da molti anni, una decina.

Carozzi, classe 1972, è stato caporedattore di Linus, autore di trasmissioni televisive – Le invasioni barbaricheLessico famigliare, l’ultima è L’assedio – e ha pubblicato i libri I figli delle stelle. Cronache di un raduno raeliano (Baldini+Castoldi, 2014) e Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016).

Un anno e mezzo fa mi dice che sta facendo “un libro sulla trap”. Però il libro non è su Sfera Ebbasta o sulla DPG, è anche quello, non solo quello. È un racconto più che altro del casino in cui ci siamo cacciati come generazione di trentaquarantenni, tra precarietà, aperitivi e Instagram Stories.

Del “libro sulla trap” parliamo spesso, finché il Saggiatore porta in libreria L’età della tigre. Il libro va bene, lo recensiscono in tanti, Ivan gira ovunque per presentarlo e diventa un piccolo caso editoriale. A qualche mese dall’uscita decidiamo di parlarne insieme, quel momento è: adesso.

Quando ti sei accorto del fenomeno trap?
Non saprei dirti, è un momento che si perde nella notte di tempi molto recenti. Però ricordo che a un certo punto, credo nel 2016, ha cominciato a montare un certo chiacchiericcio. Il momento in cui questo chiacchiericcio cresce e diventa di massa, io credo che coincida con l’uscita di Rockstar, il disco di Sfera Ebbasta, quindi gennaio 2018. Il libro che ho scritto parte proprio da quel periodo. Poi il picco arriva qualche mese dopo, con il concerto del 1° maggio.

 

Tutto il tradizionale parterre del concertone viene rivisto, perché il pubblico social da tempo chiede la testa dei Modena City Ramblers, della Bandabardò, cioè di quell’archetipo di artista vetero da concertone, ormai calcificato e pronto per diventare il classico capro espiatorio.

 

Così gli autori del 1° maggio decidono di svecchiare la manifestazione aprendo le porte a tutta una serie di nuovi artisti: Sfera Ebbasta, Achille Lauro e Boss Doms, Willie Peyote, Cosmo.

È il famoso concerto dei due Rolex al polso di Sfera Ebbasta. A un certo punto fai questo parallelo su una generazione che si celava, quella precedente alla nostra, e la sua antitesi, la generazione di YouTube e dei musicisti trap. So che potremmo scriverci un’intera libreria, ma secondo te perché siamo cambiati?
Non lo so perché siamo cambiati. Nel libro non offro nessuna risposta, in qualche modo non mi sono neppure posto la domanda. Però mi è capitato, nel corso di varie riscritture, di cominciare a scrivere di mio babbo, gli dedico alcune pagine, cosa che non avevo assolutamente preventivato. In breve: mio padre interrompe gli studi alle magistrali, non si diploma, e poi inizia a lavorare prima come tipografo, poi in ospedale come tecnico anestesista; a un certo punto della sua vita credo che cominci a sentire il bisogno di esprimere sè stesso e lo fa attraverso il disegno.
Si mette a studiare e si diploma al liceo artistico.

 

ivan carozzi intervista trap

Ivan Carozzi © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Quanti anni aveva?
Più di trenta.

I 30 dei nostri genitori sono come i 45 di adesso…
Forse anche di più. Ovviamente io e mio fratello esistevamo già. Mio padre finisce di studiare e si diploma al liceo artistico, poi si iscrive all’accademia. Nella casa dove vivevamo all’epoca c’era questo sgabuzzino del quale parlo nel libro, dove mio padre cominciò a modellare la creta e a disegnare. Immagino che lo abbia fatto per un bisogno creativo primario. La cosa più importante era chiudersi lì dentro e dedicarsi alla scultura e al disegno, senza nessun tipo di ambizione, senza il sogno di diventare qualcuno, senza il bisogno di comunicare il proprio lavoro, di renderlo visibile, di documentarlo o di raccontarlo. Tantomeno di filmarlo.

 

Si trattava di un gesto autoterapeutico, di un desiderio di evasione puramente personale. Il ricordo di questa parte della vita di mio padre si è manifestato durante la scrittura in modo improvviso e involontario, consentendomi di aprire un ragionamento sul nostro bisogno e ossessione di esprimerci, di apparire e di raccontarci pubblicamente.

 

Un fatto che oggi non è eccezionale, ma condiviso da buona parte della popolazione globale. Naturalmente si tratta di una riflessione che può essere applicata anche alla cultura dell’ostentazione nella trap, al linguaggio di Instagram, delle stories… posso fare un inciso?

Ma certo, vai…
Negli ultimi mesi, per ragioni professionali, mi è capitato di discutere molto con i colleghi e le colleghe a proposito delle Instagram Stories. Così mi è venuta la curiosità di provare, cosa che non avevo mai fatto, pur avendo un account Instagram.

 

Non l’avevi mai fatto?
No, mai, anzi: non me ne fregava niente, zero! Come scrivo nel capitolo che dedico a Side Baby (Arturo Bruni, ex Dark Polo Gang, ndr), provo un forte rifiuto nei confronti delle stories. Non ne capisco la necessità. Perché raccontare certe cose inutili di me, del mio quotidiano?

 

Poi ho provato a fare qualche story e mi sono reso conto che l’effetto è stato subito tossico, deformante. Ne ho fatte tre o quattro, pochissime, ma subito mi sono accorto che ho cominciato a vivere pezzi della mia quotidianità e della mia giornata in funzione delle stories. Avevo già incorporato nello sguardo una nuova finalità.

 

Vivere, osservare, cercare un punto di vista originale, isolare un frammento di quotidianità, trovare uno scorcio di paesaggio in funzione di una story da caricare su Instagram.


E per quale ragione, mi sono chiesto? Perché è un bel gioco? Perché è divertente?

 

Be’, può essere, ma c’è pure una componente di seduzione, di autorappresentazione in vista della cattura di un consenso, in vista della costruzione della propria reputazione (che magari mi serve per lavorare e incrementare la trama dei miei imprevedibili rapporti professionali). Alla fine tutto questo processo ha una conseguenza organica: il mio corpo per sentirsi bene di tanto in tanto ha bisogno di quella miserabile scarica di dopamina. Sono brevi iniezioni di fiducia. Evidentemente non mi basta la dopamina che ricavo dalle altre piattaforme e mi serve anche quella procurata dalle stories.

 

ivan carozzi intervista trap

Ivan Carozzi © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Tanta parte della nostra bolla ha ancora come un residuo senso di realtà, né a me né a te verrebbe in mente di riprenderci e fare il video “CIAO RAGAZZI STO ANDANDO A FARE COLAZIONE!”. Forse perché pensiamo, giustamente, che le nostre vite non siano interessanti
Le colazioni in realtà sono un momento interessante: entro in un bar, sfoglio il giornale, vivo la luce del mattino, assaporo la schiuma del cappuccino e l’eterno ritorno del piacere offerto dalla schiuma del cappuccino, ma è un momento di squisito privato, puramente mio, intimo, o al limite da condividere con la fidanzata.
Che senso ha filmarlo o addobbarlo come un albero di Natale con grafiche da novenni?

Però dai, ci piace vedere le vite degli altri, le guardiamo
Io non le guardo… Sono veramente pochissime quelle che mi sembrano interessanti. Facciamo una prova dal vivo [Carozzi scorre dallo smartphone le stories che compaiono sul suo feed, ndr]: ecco una tizia che fa il gesto di leccare la fica, aprendo la bocca e tirando fuori la lingua in mezzo a due dita a formare una V immaginaria che dovrebbe simulare la forma di una vagina…

 

Seconda story: la foto di un disegnino, uno scarabocchio, con scritto “Faccio i disegnetti per rilassarmi”… poi: una tizia che si filma tutta contenta tra il pubblico della finale di X Factor… poi: un tizio che si fotografa le scarpe… poi: un tizio e una tizia, forse leggermente ubriachi, diciamo brilli, che guardano nell’obbiettivo e cantano una canzone di Tiziano Ferro…

 

Poi: la neve che scende vista da un comunissimo balcone milanese… innumerevoli stories dove protagonista è la neve che scende dal cielo ripresa da comunissimi balconi milanesi… E ancora: due donne trentenni che si fotografano in ascensore… poi: un altro tizio che pure lui si filma in ascensore… poi: il dettaglio di una scodella di cibo bollente sul tavolo di un ristorante cinese ingombrato da piatti e altre scodelle fumiganti… poi: la smorfia in primo piano di un tizio che vuole rappresentarsi in modo autoironico… e poi ancora neve, neve, neve, neve, neve ripresa da balconi qualunque, stories che vorrebbero restituire la magia di una giornata di neve, e invece hanno l’effetto contrario… e così via.

 

Sembra che facciano delle vite interessanti…
Molto interessanti. Quanto tempo è passato da quando abbiamo iniziato a sfogliare queste stories? Un minuto e mezzo. Forse meno. Che voto attribuire a questa esperienza? Zero.

 

Ho solamente consolidato il mio rapporto con la piattaforma, si è ulteriormente radicata dentro di me un’abitudine, questa cosa di fare colazione o salire lungo le scale mobili o prendere un tram “e intanto sfoglio le stories”, ogni interstizio di tempo occupato dallo sfoglio delle stories. Poi quando mi stacco resta un ronzio nel cervello e una sorta di leggero magma browniano dietro le palpebre. Ogni story sfogliata estende di numerosi ettari quella terra sgombra e ventosa che nello humour di internet è chiamata “vastità del cazzo che me ne frega”; ogni nuova story aggiunge ettari e orizzonte a quella terra libera e misteriosa.

 

Più che altro le stories non contribuiscono granché alla conoscenza delle persone, non ci dicono molto sul loro conto
In effetti quando incontri realmente le persone – almeno nella mia esperienza – viene sistematicamente smentita l’idea che di quella persona ti eri fatto sui social.

 

Gli artisti trap sono esemplari in questa materializzazione di meraviglia dal nulla e anche del suo contrario, penso ai momenti in cui Side Baby della DPG si mostrava strafatto su Instagram. Oltre ad aver contaminato un linguaggio – bufu, bibbi, bitch – che cos’altro hanno portato secondo te?
Sicuramente ci sono una serie di caratteristiche estetiche e linguistiche che sono una novità rispetto a tutto quello che c’è stato prima. Penso al tatuaggio in faccia. Ora ci abbiamo familiarizzato, il tatuato in faccia è invitato nei talk show di Rai Uno, ma solo un anno e mezzo fa, due anni fa, la vista di un tatuaggio sulla tempia o sulla guancia produceva un effetto di choc, perché dentro di noi consideriamo il volto qualcosa di sacro, di così inestricabilmente legato alla nostra storia, alla nostra identità, da rappresentare un luogo inviolabile. Almeno fino a qualche tempo fa… Poi ci sono i grillz, ovvero il metallo e le gemme applicate sulla dentatura, il che contribuisce ulteriormente a trasformare il volto in una maschera.

E poi c’è l’Auto-Tune, cioè una forma d’ibridazione tra uomo e macchina
Certo, l’Auto-Tune seduce perché dentro di noi innesca un racconto sull’umanità, sulla specie umana alla quale apparteniamo e sulla sua trasformazione in qualcosa che ci è ancora ignoto. Ma non solo. Ketama 126, tra un brano e l’altro in concerto, continua a parlare al pubblico usando l’Auto-Tune.

 

Da una parte mi sembra una forma di cabaret, dall’altra un modo per brandire e rivendicare ulteriormente uno strumento espressivo che è distintivo della trap ed è stato oggetto di polemiche un po’ bolse intorno alla genuinità della voce umana.

 

Inoltre l’Auto-Tune spesso viene esasperato, estremizzato, trasformandosi in una sorta di vetro satinato che offusca non solo la voce, ma la parola, il testo. Il che è un procedimento poetico. Gli oggetti coperti in qualche modo ci affascinano, proprio perché sono sottratti alla vista. Io credo che l’Auto-Tune venga esasperato anche per restituire questo effetto di nascondimento della parola, per costruire una specie di apnea che rende confusa e difficoltosa la fruizione della parola.

 

ivan carozzi intervista trap

Ivan Carozzi © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Potremmo obiettare che nella trap ci sono delle cose antiche, ma già viste in altre sottoculture: l’esibizione dello status symbol, del denaro, di una parte di cultura hip hop, oppure il nichilismo del punk. La trap ha qualcosa in comune con queste sottoculture diventate mainstream?
Non saprei. Anche nel rap e nel gangsta rap esistono l’ostentazione del denaro, della macchina di lusso, dello status symbol. Forse nella trap quel tipo di cultura e di attitudine è solo intensificata e più articolata. L’ostentazione del denaro nei videoclip viene ritualizzata, per esempio, attraverso quel gesto delle mani che consiste nello sfogliare di fronte alla telecamera una mazzetta di banconote. Laioung, in un video di pochi mesi fa, non solo mostra l’orologio costoso, ma lo avvicina alla bocca e poi lecca con la lingua il quadrante dell’orologio.

 

Rispetto al punk, confesso che a livello epidermico trovo un po’ fastidiosa la correlazione tra punk e trap.

 

È un accostamento molto facile, è un’osservazione che fanno un po’ tutti e spesso è una scorciatoia comoda per legittimare la trap e nobilitarla. Mi sembra un modo di ragionare molto pigro. Inoltre non sopporto la facilità con cui tutti parlano del punk.

 

Anche Fedez ha dichiarato più volte “io vengo dal punk”, il che è un modo roboante e furbo di costruirsi dei quarti di nobiltà, usurpando una parola. Non ce lo vedo Fedez con la scabbia dentro uno squat.

 

Il punk e la trap hanno in comune un certo tasso di linguaggio oltraggioso e di estetica oltraggiosa, però il punk, come ha scritto Dick Hebdige in Sottoculture, era un linguaggio che con i suoi pallori cadaverici, gli abiti stracciati e le spille da balia, metteva in scena la crisi, il no future, mentre la trap incorpora, glorifica e feticizza il capitalismo.

Torniamo ai due Rolex di Sfera Ebbasta e al concerto del 1° maggio. Quanto tempo è passato da quel giorno?
Un sacco. Sfera Ebbasta già sembra un senatore e nel frattempo sono emersi moltissimi altri artisti. La scena corre e rispetto al periodo in cui ho scritto il libro il quadro è radicalmente cambiato. La trap è diventata un ecosistema più ricco, complesso, stratificato.

È anche stato – secondo me con gioia – inghiottito dal marketing delle corporation: pensa a Charlie Charles che è sulle lattine di Coca Cola, a Ghali con Gucci. Sono stati assimilati, digeriti, ma non penso neanche che abbiano mai avuto l’intenzione di opporre qualche resistenza: era quello che desideravano
Le carriere degli artisti trap sono spesso imprenditoriali. Lo scopo è in qualche modo sfangarla, farcela, questa ossessione nauseante del farcela (al contrario del punk, dove il “non farcela” era invece una medaglia e un elemento di distinzione), del diventare qualcuno e costruirsi un percorso di successo, magari partendo dalla propria cameretta.

 

Dopodiché tutto può succedere e non è detto che farai musica per sempre, anzi. Magari diventi un personaggio televisivo, magari apri un ristorante con un tizio famoso oppure una linea di abbigliamento.

 

Adesso volevo chiederti di Massimo Pericolo. Perché se Ghali è un abitante perfetto della Milano da render da Bosco Verticale, Massimo Pericolo secondo me no. Che cosa ha di diverso lui dal canone e dagli artisti della scena?
Pensa al videoclip di Polo nord di Massimo Pericolo: lì c’è un racconto drammatico, scabroso, dove Massimo Pericolo si prende anche il rischio di entrare in territori pericolosi, scivolosi, come la misoginia. In quel video lui è una specie di incel, c’è la messa in scena di una vendetta nei confronti della donna che lo ha tradito e del suo nuovo fidanzato. In quel video vedo un racconto quasi dostoevskiano, crudo, selvaggio, sottilmente inebriato di violenza, non addomesticato, il che rende Massimo Pericolo diverso da figure più integrabili come Ghali. Ghali è sicuramente una figura morbida, elegante e commestibile. Massimo Pericolo un po’ meno.

 

ivan carozzi intervista trap

Ivan Carozzi © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Già che ci siamo: Ghali è il nuovo Jovanotti?
So che Ghali è un fan di Jovanotti, però di Jovanotti non ha la solarità o la retorica delle good vibes. È una silhouette da passerella, come può esserlo Mahmood, però non esprime quella espansività che ha Jovanotti, mi sembra.

Jovanotti faceva lo scemo – ma non lo era – e rideva molto: mentre mi sembra che nella trap si rida poco. Fanno molto i seri
Tendo a simpatizzare più con la trap, da questo punto di vista. Non si ride, si resta truci, anche perché nell’interpretazione di quel ruolo, del narcos, del gangster, la risata e la leggerezza non sono previste, significherebbe uscire dal personaggio.

Sfera Ebbasta a X Factor si è riposizionato…
Dicono che è bravo, non l’ho visto. Tu l’hai visto?

Sì, è diventato rassicurante, è il nipotino coi capelli colorati un po’ matto che sta simpatico alla nonna. Dai “ragazzi di Ciny” è un passo enorme. Cos’altro sta venendo fuori di nuovo in questi mesi?
Tante cose.

Chi resterà?
Non saprei. E inoltre, chi sono io per dirlo?

Ultima cosa che ti chiedo: a un certo punto racconti di quando scrivi a questi due YouTuber, quelli che fanno Quanto vale il tuo outfit. Mi racconti com’è andata?
Mentre lavoravo al libro ho fatto qualche tentativo non troppo convinto di mettermi in contatto con alcuni trapper. Nel caso al quale ti riferisci, invece, con due YouTuber. Nessuna risposta.

Come mai, secondo te?
I motivi possono essere tanti. Chissà. Però faccio un’ipotesi. Forse non c’è più nessun particolare interesse verso il libro, verso la carta. Tantomeno l’incontro con uno scrittore suscita particolare curiosità, a meno che non vedano nello scrittore un capitale, un’opportunità, un “gancio”.
Per cui se sei uno scrittore noto allora vale la pena associarsi in qualche progetto, anche una semplice intervista.

 

A me questo fatto rattrista profondamente, ammesso che la mia interpretazione sia corretta. Un incontro non dovrebbe avere niente a che fare con la sua utilità o con i vantaggi che una persona può portarmi.

 

Se l’ambiente della cultura, della musica e dell’arte diventano un contesto vettoriale dove fare network e carriera, allora è la morte di tutto, è la morte della bohème, della cultura, della bellezza, degli affetti puri. Soprattutto è la morte del libro, cioè del luogo in cui questo genere di logiche vengono ignorate, annientate e dimenticate.

Perché poi non rispondono a te, ma poi vanno a fare il video che so, con Montemagno. Perché Montemagno = capitale spendibile, è una cosa misurabile in view, tu invece diventi un costo opportunità: “Il mio pubblico sarà interessato ai libri? Forse sì ma non quelli di Ivan Carozzi”
Sì, c’è subito un ragionamento in termini imprenditoriali e io lo trovo veramente drammatico perché così facendo lo scambio tra gli attori sociali non è più fondato sulle idee, sulla curiosità per l’altro, sul prendersi del tempo insieme, fare delle riflessioni, scambiarsi delle cose, no.
È solo cosa tu porti a me.

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