Che differenza c’è tra imprenditore e precario? Sempre meno: e non è un bene. L’analisi di Silvio Lorusso sulla precarietà diffusa di una generazione
Precari e velleitari, costretti a un ottimista falso sé sui social media, incatenati a un’emulazione fallita dell’imprenditorialità da Silicon Valley: che sogno la vita Millennial! Entreprecariat (Krisis Publishing, 2018) di Silvio Lorusso proprio questo va a indagare. Il sistema in cui bene o male tutti – chi più fortunato, chi meno – galleggiamo.
L’imprendicariato di Lorusso è la poltiglia dove siamo immersi: è il rider che ci consegna il pranzo, ma che sceso dalla bici diventa web designer a partita Iva e magari ha un fantastico account Instagram che seguiamo. È il dumping del lavoretto a 5 dollari su piattaforme come Fiverr che viene delegato a un precario più precario dall’altra parte del mondo.
È la costrizione a subire il “cambiamento” con spirito imprenditoriale, senza essere per vocazione imprenditori: e per quanto la vulgata 4.0 da manualistica di auto-aiuto suggerisca del positivo in tutto questo, sono sciocchezze. In tutto questo per molti – diciamo pure: quasi tutti – non c’è niente di positivo: ma l’unica possibilità è adeguarsi alle circostanze.
Nel libro parti dalla dissonanza cognitiva di una generazione che si crede qualcosa, ma è tutt’altro. Dissonanza che hai provato tu per primo: un giornale italiano ti aveva intervistato e in pagina emergevi come il classico “cervello in fuga” precario, tu però non ti sentivi così: quindi chi è Silvio Lorusso?
Ho fatto molte cose diverse e lo stesso fatto di dover provare a raccontarle in un “one liner” mi riesce difficile! Ti posso dire quello che faccio per pagare le bollette.
È un ottimo inizio
Al momento insegno design e coding in un’accademia d’arte qui in Olanda. Ho finito qualche anno fa un dottorato a Venezia, lavorato come freelance facendo siti web e flirtato con il mondo dell’arte. A volte mi capita di curare delle mostre. Sono un buon riflesso di alcune dinamiche che descrivo nel libro, soprattutto della difficoltà a mantenere un profilo univoco.
Siamo tutti costretti alla poliedricità?
Quantomeno la gente che mi circonda. In questo stesso magma c’è chi fa il designer la sera, e che ne so, poi lavora in un bar di giorno. C’è sempre questa dinamica del lavoro “vero” e quello che fai per passione, questa ambivalenza.
Questo ci porta dritti all’entreprecariat. Che cos’è?
Con questo termine provo a mettere in luce le relazioni tra l’imprenditorialità – che in un certo senso non è più solo una pratica degli imprenditori, ma un sistema di valori che coinvolgono non più solo loro, ma la società in senso lato – e la precarietà.
Connected people © Jorge Perez Higuera / LUZ
Qual è la relazione tra il sistema dei valori imprenditoriali e la precarietà?
Questa due prospettive si incontrano nel tema del cambiamento. Mentre l’imprenditorialità accoglie il cambiamento e lo fa in maniera ottimistica, entusiastica, come cosa naturale – e questo a livello storico – il discorso precario è stato forse il primo a prendere quell’aspetto della società del rischio e sollevare dei dubbi, soprattutto rispetto a una prospettiva futura in cui il cambiamento non è necessariamente positivo. Il modo in cui queste due visioni del mondo interagiscono è questo: l’imprenditorialità – che in un certo senso è “più forte” – delegittima queste istanze che alimentano il discorso precario.
Diciamo che l’imprenditorialità è sia una risposta all’angoscia precaria, sia qualcosa che impedisce al discorso precario di emergere nella sua pienezza.
A proposito dello sfasamento che avevi vissuto tra com’eri stato ritratto e come ti riconoscevi hai detto: “L’idea imprenditoriale che avevo di me negava un’altra idea di realtà, quella della stabilità economica”. In tanti possono riconoscersi in questa descrizione. Come siamo caduti in questa trappola?
Posso provare a rispondere a questa domanda facendo un confronto con le tesi di Raffaele Alberto Ventura, che ha scritto la postfazione. Se lui sottolinea l’aspetto quasi velleitario della nostra generazione, quello che spero emerga dall’insieme dei testi nel mio libro è che questa rappresentazione disforica, questa dissonanza, è anche legata a una necessità economica.
Insomma, dissonanti per sopravvivere?
Serve in questo senso: nel momento in cui – se ci rifacciamo all’esempio all’inizio del libro – vengo ritratto su un giornale nazionale come “il ragazzo medio” che ha mandato centinaia di cv senza avere risposta questo mi penalizza a livello di branding, se vogliamo usare questa terminologia da self-marketing. Rispetto a Ventura io ritengo che l’aspetto velleitario sia in un certo senso secondario, è molto più presente la necessità strategica, economica, di presentarsi come agenti autonomi. Insomma, bisogna fare di tutto per convincersi di farcela. È il metodo Stanislavskij applicato alla costruzione della propria carriera.
Geert Lovink nella prefazione scrive che stiamo diventando curatori della nostra vita. Se siamo tutti curatori chi è che si gode la mostra?
È una domanda interessante. Io penso che la stessa questione di vedere, di concepire chi ci sta attorno come pubblico sia parte della questione. Provo a spiegarmi meglio. Noi immaginiamo in linea generale i social media – io parlo di LinkedIn, per ovvi motivi – come spazio della condivisione, di creazione di comunità. Bauman a proposito della nostra presenza sui social media sosteneva che “Su un social media come Facebook è la community che appartiene all’utente”, e non l’opposto, come accadeva in una comunità più tradizionale.
Sui social media concepiamo la nostra presenza in pubblico come una performance che produce uno stimolo, una risposta nella comunità: ma non produce un senso di appartenenza in senso tradizionale, autentico.
Una delle caratteristiche dei colossi tech è di voler possedere ogni nostro momento di veglia: ce la faranno?
Una delle ispirazioni per quella parte del libro è un testo che è stato abbastanza popolare negli ultimi due anni, 24/7 di Jonathan Crary, il cui sottotitolo è “Il capitalismo all’assalto del sonno”. Ce la faranno? Noto che c’è un trend e un anti-trend. Se fino a qualche anno nel gotha imprenditoriale c’era questa idea di stakanovismo estremo – all’apice nell’imprenditoria molti si vantavano di questo continuo lavorare, Marissa Mayer di Yahoo che lavorava 16 ore al giorno, Elon Musk stessa storia, e moltissimi altri – allo stesso tempo ora emerge un trend diverso. Provare a gestire il relax come strategia per lavorare in maniera più intelligente, più “smart” come si usa dire.
Dovremmo lavorare meno?
In linea generale penso che una riduzione dell’orario di lavoro sarebbe un vantaggio da ogni punto di vista, e ci sono dei movimenti che lavorano in questa direzione. Da tempo c’è chi propaganda l’idea di una settimana lavorativa di quattro giorni.
Senza ombra di dubbio sarebbe positivo, soprattutto nell’ambito del terziario, del lavoro cognitivo, culturale, dove è impossibile essere produttivi 8 ore al giorno, figuriamoci 10, figuriamoci 12.
Questa idea di seguire i cicli tradizionali del lavoro mi sembra una pantomima che continuiamo a mettere in atto perché non abbiamo nuovi modelli.
Quindi cosa ce ne facciamo del tempo libero?
Il punto non è tanto lavorare meno o in maniera più assennata – anche se ritengo che lavoriamo troppo – è la prospettiva il problema. Oggi qualsiasi attività, che sia di svago o di lavoro ha dei fini strategici, competitivi, imprenditoriali, di mercato. Quindi non so se ce la faremo, se lavoreremo anche di notte oppure no, però credo che se quel tipo di prospettiva non viene ribaltata, se non si prende il tempo libero come tempo liberato, a fare la differenza sarà solo il ceto.
In che modo?
A livello di un ceto non privilegiato l’unica risposta strategica per affermarsi sarà quella di lavorare tanto, fino a notte fonda, mentre arrivati a un certo livello della scala sociale – l’imprenditore che ce l’ha fatta, o il lavoratore creativo che ce l’ha fatta – si potrà rivendicare l’ozio. Quell’ozio sarà un vantaggio, in senso lavorativo: l’imprenditore o il lavoratore saranno più svegli, più lucidi nei rapporti sociali, più abili.
Connected people © Jorge Perez Higuera / LUZ
A proposito di nuovi modelli: nel libro non parli di automazione
Il tema dell’automazione mi preoccupa. Io credo che dal presente fino alla piena automazione ci saranno dei decenni di caos, di semiautomazione. C’è questa idea limpida, utopica, per cui i robot faranno tutto. Nel frattempo automazione vuol dire manodopera outsourced a basso costo, delegata a lavoratori remoti, su piattaforme come Mechanical Turk di Amazon, e vuol dire estrazione di profitto da parte dei colossi del tech.
“Pretendere il futuro” genera meme divertenti, ma è da valutare con più attenzione?
Credo che puntare a quell’obiettivo in maniera così come dire, cieca, miope, o quantomeno non contestualizzandola nelle dinamiche attuali delle sviluppo dell’automazione, dell’AI, vuol dire mettere da parte i problemi veri.
Quali sono? La parte più sporca dell’estrazione di valore. Io credo che l’automazione al momento non sia una risposta, anzi la si può considerare un problema. Nel “libro rosso” che tutti amano citare (Inventare il futuro – Per un mondo senza lavoro, di Nick Srnicek e Alex Williams, ndr) la parte sull’automazione è davvero molto debole, sono due, tre pagine.
Il mondo dei lavori creativi è fatto di sorridi o muori. Quanto reggiamo ancora?
Forse c’è da dire qualcosa su cosa intendiamo per lavoro creativo. Se parliamo di questa tirannia della positività non riguarda soltanto designer, fotografi, giornalisti, eccetera. L’ambito in cui quel sorridi o muori si è affermato non è affatto il lavoro creativo, ma l’industria dei servizi. Chi è dietro ai banconi, chi lavora da Zara… quel tipo di costruzione della propria parvenza emotiva, nasce in quegli ambiti. Ora si accresce a tutti gli spazi e a tutti gli ambiti lavorativi in cui la società diventa centrale. Lo scenario è un po’ preoccupante. Perché per esempio qui in Olanda c’è un 8% di persone che soffrono di sintomi di burnout. Come sappiamo ansia e depressione sono in crescita a livello globale.
Consumo di psicofarmaci idem
Quello che posso dire è che il mondo creativo forse sta sviluppando degli anticorpi. C’è tutta una vulgata ironica in cui il freelance sdrammatizza la sua stessa condizione. Secondo me è una sorta di mini-catarsi, proprio per risollevare un po’ il morale dopo giornate di falsi sentimenti, di sentimenti artefatti, di cortesia col cliente. Vedo questa sorta di ironia e autoironia un po’ sarcastica, un po’ negativa, come la forma di anticorpo che la classe creativa, ha prodotto per sopravvivere.
Lo vediamo anche in esempi italiani, pensa a l’Età dell’oro: ridiamo perché siamo tutti così. Saranno questi anticorpi ironici la giusta cura per superare la tirannia della positività pubblica, relazionale lavorativa? Ho qualche dubbio.
Proponi anche una exit strategy a questa situazione non particolarmente piacevole in cui siamo immersi, non individuale ma collettiva
Come avrai visto nel libro questa pars construens è accennata. L’obiettivo era più analitico che di manifesto, però penso che il limite dell’imprenditorialità sia in questa idea di potenzialità assoluta. Il discorso è sempre su quello che si può raggiungere attraverso le proprie potenzialità. Io e altri autori suggeriamo di spostare il baricentro sull’assenza di potenzialità, su quello che non si può fare, e anche sul poter non fare. Noi abbiamo sempre questa idea di “potere positivo” ma “cosa posso non fare”? Non posso non lavorare, non posso non mandare curriculum, non posso non essere presente alle partite di calcetto per cercare lavoro. Io penso che esaltare questi esempi di potenza negativa corrisponda a indebolire la presa imprenditoriale.