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Razzisti non si nasce

L’emancipazione femminile, gli effetti dell’apartheid e il lavoro per l’ONU: abbiamo incontrato la scrittrice e attivista sudafricana Sindiwe Magona.

di Valentina Ecca

Quante possibilità ha una madre single di 23 anni in una periferia di Città del Capo, devastata dall’apartheid, di studiare e uscire dalla povertà? Molto poche, purtroppo. Abbiamo parlato con Sindiwe Magona, scrittrice e attivista sudafricana: una delle poche che ce l’hanno fatta.

Coraggio e determinazione l’hanno portata da un master alla Columbia University fino all’ONU: dove ha lavorato per più di vent’anni. L’abbiamo incontrata per farci raccontare del suo romanzo più celebre Mother to mother, della paura, della rinascita e di come ha vissuto l’elezione di Donald Trump.

Nella sua vita ha dovuto attraversare diverse difficoltà, cosa l’ha sempre guidata? Perché ha deciso di combattere?
Io non la vedevo come forza all’epoca, è arrivata dopo la consapevolezza. La mia vita è crollata quando avevo 23 anni, ero arrabbiata, mi vergognavo e avevo tre bambini da crescere. Ho avuto dei genitori che non apprezzavo da piccola ma quando sono cresciuta e diventata madre ho capito che fortuna ho avuto ad averli come genitori. Se loro, che avevano avuto un’educazione molto ristretta – potevano a malapena scrivere e leggere – avevano fatto molto per me, io dovevo fare di più.

 

Andai su un ponte e pensai che sarebbe stato molto più facile finirla, ma di nuovo la mia educazione mi fece capire che era solo un momento di disperazione e che non si sarebbe risolto con la mia morte.

 

Anzi! Sarebbe cresciuto ancora di più, i miei figli – che non avevano più un padre – non avrebbero avuto più neanche una madre. I miei genitori avevano anche loro molti figli e avrebbero dovuto pensare anche ai miei, non era giusto per nessuno. Ho realizzato crescendo che, – e non è più così da tempo in Sudafrica – le porte della Chiesa non sono mai chiuse. Ho capito che sarei dovuta andarci da sola, nel mezzo della settimana, inginocchiarmi e pregare. Speravo in un miracolo, quando ci sono andata ho pianto e capito che non potevo uccidermi. Sapevo che quello non era il modo per risolvere la mia situazione: dovevo trovare il modo per uscire dalla povertà.

 

Sindiwe Magona intervista attivismo sudafrica

Sindiwe Magona © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Che consiglio darebbe a una donna che si trovasse a vivere delle difficoltà come le sue?

 

Quando avevo 25 anni avevo un motto: “I will be something”.

 

Durante l’apartheid noi eravamo l’unico gruppo – neri africani – che non poteva accedere alle sovvenzioni dello Stato. Tutti potevano: minoranze indiane, asiatiche, tranne noi. C’era una cosa che si chiamava “South Africa child welfare society” a cui non c’era neanche permesso di accedere. Sapevo che eravamo solo io e miei figli.

 

Volevo essere qualcuno nonostante quel governo, non lo avrei lasciato vincere. Non mi interessava quello che dicevano di me, io non sono frutto di quella politica.

 

Una volta che inizi a combattere c’è un sacco di aiuto. Senza l’aiuto non avrei potuto studiare, una volta finita la scuola vidi la pubblicità di un master – alla Columbia University di New York, ndr – in un giornale. Feci domanda e mi presero. Bisogna buttarsi, devi cogliere le opportunità e mostrare iniziativa. L’aiuto arriva per chi si aiuta da solo.

Lei parla sempre molto degli “antenati” e della loro presenza nella vita di tutti i giorni
Sì, noi ci crediamo molto. Nel cattolicesimo si pensa che lo spirito sia eterno, ma la Chiesa non parla mai del fatto che lo spirito è accessibile. Nella nostra tradizione non crediamo che le persone muoiano e diventino nulla, pensiamo che vadano su un altro piano. Crediamo siano lì, siano reali e ci si possa parlare. Se ti proteggevano da vivi, lo faranno anche da morti. A me questo dà la forza, prima di qualsiasi cosa mi chiedo cosa penserebbero mia madre e mio padre. È un modo per mostrare gratitudine e ripagarli per quello che mi hanno trasmesso. Mi guardo indietro e penso a tutto quello che hanno dovuto sopportare per crescermi.

 

Sindiwe Magona intervista attivismo sudafrica

Sindiwe Magona © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Come nasce la sua passione per la scrittura?
Io scrivo perché non so cantare. Se sapessi farlo andrei fuori e canterei per farmi ascoltare, non riuscendoci ho iniziato a scrivere quello che penso. Ho iniziato tardi a scrivere e ho sempre l’impressione di dover scrivere tutto prima di morire. L’idea mi è venuta ascoltando il consiglio delle persone – parlo più di quanto scrivo – e la gente mi diceva continuamente: “per favore scrivilo!”. All’inizio avevo paura perché non sapevo cosa scrivere, non prendevo la mia vita così seriamente. Non mi consideravo così brava da poter diventare una scrittrice. Vivendo a New York vedevo persone che sembravano così ordinarie – come me – scrivere. Pensai: “posso provare”. La prima cosa che ho scritto era narrativa.

 

Uno stupido insegnante una volta mi disse: “la narrativa è qualcosa che non è mai esistito”, e io la presi letteralmente. In realtà è creare qualcosa che non esiste ma basandolo su qualcosa che sai.

 

Provai a scrivere qualcosa di completamente fantastico e verso pagina otto e nove scrissi qualcosa che era successo davvero e pensai: “questa non è finzione”. Alla fine ho scritto di quello che era successo a me. Diffidate della finzione!

Il suo romanzo “Mother to Mother” è la lettera della madre di un assassino scritta alla madre della vittima. Cos’è per lei il perdono e le chiedo se si aspettava che questo romanzo costruisse una scia così virtuosa e positiva
Il libro parla di tradizione, la nostra cultura viene dal villaggio: questo può sopravvivere solo se c’è armonia e pace. Se mio figlio uccide tuo figlio o qualcosa succede tra le nostre famiglie è dovere perpetuare la “tradizione” sbagliata. Nasce una faida. Se io in spirito di umiltà vado a chiedere perdono: parliamo del concetto di “ubuntu” (io esisto perché tu esisti) si può risolvere. Se faccio qualcosa di sbagliato è mio dovere iniziare il processo di cura, sennò la faida crescerà sempre di più fino a distruggere il villaggio.

 

Il libro guarda al Sudafrica e ricorda al paese che sì quei quattro giovani uomini hanno ucciso una ragazza ma siamo tutti responsabili. Perché abbiamo permesso all’odio di crescere a quei livelli.

 

Tutti noi dobbiamo prenderci la responsabilità per l’omicidio di Amy (Biehl). Questi ragazzi sono cresciuti con quell’atteggiamento, hanno imparato da noi.

 

Gli slogan come “one settler, one bullet” non li hanno inventati quei ragazzi. Arrivano da persone più anziane, più sofisticate e che hanno studiato: i ragazzi li hanno utilizzati.

 

Quello che succede in una comunità e in un paese è una responsabilità di tutti. Durante il periodo della “Commissione per la verità e la riconciliazione” questi ragazzi vennero perdonati perché provarono che quel crimine era stato motivato dalla politica, la famiglia di Amy Biehl non si oppose all’applicazione di questo indulto. Il padre della ragazza disse: “spero che la società dia a questi ragazzi il supporto che meritano, così che possano vivere bene le loro vite”. Questo è quello che andrebbe dato a tutti i figli: il supporto. La mia nazione non lo fa, diciamo che non ci sono soldi così i ragazzi crescono nella povertà, senza un’educazione e quando iniziano a creare problemi – tra i quattordici e i sedici anni – li mettiamo in prigione.

 

Se i soldi che usiamo per mettere in galera le persone li usassimo per educarle avremmo una società migliore.

 

Sindiwe Magona intervista attivismo sudafrica

Sindiwe Magona © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Come si combatte l’odio razziale? Le faccio questa domanda perché in Italia negli ultimi anni stiamo assistendo a tanti episodi di razzismo

 

Il razzismo è un atteggiamento: nessuno nasce razzista. È qualcosa che viene insegnato.

 

Non è importante l’aspetto di una persona, conta quello che ha dentro. Il sangue, le ossa, il cervello sono gli stessi. In passato qualche stupido scienziato ha teorizzato la differenza fra razze, quel tipo di teoria è stato provato essere falsa ma l’atteggiamento è rimasto. È dentro di noi e prende il sopravvento. Bisogna insegnare a pensare differentemente, non si nasce con quel pensiero. Le persone imparano da ciò che li circonda: finché ci saranno persone razziste, il razzismo crescerà. Noi impariamo da ciò che leggiamo, da ciò che sentiamo in giro, in tv. Siamo tutti un prodotto dell’universo, siamo solo cose e come noi ce ne sono tante altre. Dovremmo avere l’umiltà di accettare quello che ci circonda. Ci sono specie animali estinte a causa nostra, e noi ancora pensiamo di essere la cosa migliore del mondo? Siamo distruttivi, dovremmo vergognarci di ciò che abbiamo fatto gli uni agli altri. Non solo per il colore della pelle. Siamo violenti, distruttivi.

 

Un antico detto recita: “Dio non commette errori”. Io a volte mi chiedo: “Dio perché non ti sei fermato prima di creare certa gente?”

 

Quindi è impossibile per un bambino che nasce in un ambiente con questa ideologia non essere razzista
È impossibile, non c’è via d’uscita. Il razzismo ci sarà sempre fino a che gli adulti non prenderanno una posizione. Nella mia famiglia l’odio è finito con me, io non ho permesso che i miei figli crescessero nel razzismo.

 

Gli omofobi per esempio, è mio compito combattere le lotte LGBTQ+: è la mia lotta perché non uscirà mai nulla di buono dall’odio.

 

Quello che è sbagliato è sbagliato, e io lo dirò. Ne scriverò. Non dirò mai che non mi riguarda.

 

Questo è quello che è successo con l’apartheid, alcuni bianchi sudafricani dicevano: “io non sono razzista”, ma non hanno partecipato alla lotta contro l’apartheid. Io non voglio essere così.

 

Sindiwe Magona intervista attivismo sudafrica

Sindiwe Magona © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Ci sono degli autori che l’hanno ispirata?
Certo, la scrittura non arriva dal nulla. Noi scriviamo perché leggiamo. C’è stato un periodo in cui non ho letto autori sudafricani. Non riuscivo, soprattutto quando ho iniziato a scrivere. Leggo scrittrici come Chimamanda Ngozi Adichie, da più giovane ho letto soprattutto letteratura inglese come Dickens, Shakespeare e le sorelle Brönte. Ho letto anche molti autori americani.

 

Sindiwe Magona intervista attivismo sudafrica

Sindiwe Magona © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Come giudica l’America di Trump?
Trump è come (Jacob) Zuma – ex presidente del Sudafrica, ndr -. Io non posso crederci, prima delle elezioni quando i candidati si sono presentati, pensavo che la candidatura di Trump fosse uno scherzo. Qualcuno mi disse che sarebbe stato il prossimo “number one” del mondo, pensai: “quest’uomo è accusato di stupro, di corruzione, di evasione fiscale non è possibile”.

 

Dissi anche che se Donald Trump fosse stato il prossimo presidente degli Stati Uniti io mi sarei vestita di nero fino alla fine del suo mandato. La sua vittoria per me è stato un tradimento della fiducia.

 

È successo anche in Sudafrica quando il partito ha permesso la vittoria di Zuma, è stato un tradimento e le persone non perdoneranno l’ANC – African National Congress, ndr -. Queste elezioni sono state una mancanza di rispetto per i votanti. Quando Trump ha vinto ho pianto per Hilary Clinton, per lei e per me, perché questo ha detto molto sulla condizione della donna.

 

Qualsiasi cosa, persino uno con la storia di Trump è meglio di una donna, questo è stato il messaggio. Mi ha fatto capire: “donna il mondo non ti considera affatto”.

 

Ho pianto per Hilary, lei non aveva bisogno di essere presidente e infatti era tranquilla, per me quello è stato un chiaro messaggio al mondo. Il mondo non vede noi, vede delle donne: qualcosa che puoi avere al tuo fianco, qualcosa da trattare male, da insultare. Perfino Donald Trump è meglio di una donna eccellente.

L’America ha davvero mai superato l’apartheid?
No, l’odio razziale non finirà mai. Le persone che soffrono per il razzismo è bene che sappiano – non sto dicendo che non devono combattere – che devono vivere nonostante l’odio che subiscono. Quando ero povera, quando ero depressa, non era solo a causa dell’apartheid, era anche a causa di mio marito e a causa di come gestivo la mia sessualità. Non sto dicendo che non dobbiamo dire che noi non soffriamo per il razzismo, ma dobbiamo anche essere consapevoli delle cose che facciamo noi. Se sei un uomo che mette al mondo tanti figli in giro per il mondo, alcuni non avranno un padre. Forse succede perché è un retaggio culturale però a un certo punto l’essere umano deve prendersi delle responsabilità.

 

Non c’entra il razzismo, c’entrano le responsabilità personali. Non tutto dipende dal fatto che sono nera.

 

Sindiwe Magona intervista attivismo sudafrica

Sindiwe Magona © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Qual è la situazione adesso in Sudafrica?
L’AIDS ci sta uccidendo, sta riducendo le nostre vite, si muore giovani.

Lei è tornata a Città del Capo dopo aver lavorato per più di vent’anni negli Stati Uniti all’ONU, come mai?
Quando pensavo a dove mi sarebbe piaciuto vivere mi veniva in mente il posto dove sono nata e da dove sono dovuta andare via – quando avevo cinque anni- perché i bianchi, durante l’apartheid, avevano quella parte del paese. Lì avevano costruito case bellissime, avrei potuto comprare o costruire anche io ma lì c’è sempre qualcosa che non funziona. Magari hanno dei bagni bellissimi ma non funziona l’acqua, ho pensato: “fammi rimanere a Città del Capo” qui il municipio sa cosa fare. La mia famiglia, i miei parenti e i miei amici sono qui e potrò sempre fargli visita. Ho pensato lo stesso anche per gli Stati Uniti potrò sempre andare a trovare chi vive lì.

 

Ho bisogno di stare in posto che per me sia casa, e Città del Capo per me è questo. Sono felice di esserci tornata. Qualche nostalgia dell’America ce l’ho ma se fossi rimasta lì mi sarebbe mancata la mia città.

 

Sindiwe Magona intervista attivismo sudafrica

Sindiwe Magona © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Che cosa le fa più paura?
Io ho paura della violenza, la odio. Poi ho paura di chi guida male… Gli autisti sudafricani sono tremendi. Nella mia vita prendo sempre lo stesso servizio di taxi, gestito dalla stessa famiglia. Ah! Ho anche paura di morire prima di scrivere tutti i libri che voglio scrivere.

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