Un #metoo per il cambiamento climatico? Perché è necessario cambiare il nostro linguaggio per salvare il pianeta: intervista a Andri Snær Magnason
Andri Snær Magnason è uno scrittore e poeta islandese. Tra i temi affrontati nelle sue opere spicca l’emergenza climatica, di cui si occupa anche come attivista. Il suo ultimo libro Il tempo e l’acqua (Iperborea, 2020, traduzione di Silvia Cosimini) racconta l’urgenza di fermare il riscaldamento globale mescolando scienza, la sua storia familiare, i miti islandesi e molto altro ancora.
Abbiamo parlato con Magnason di cosa significhi raccontare il cambiamento climatico, e di come cambiare la narrazione di questo problema potrebbe spingerci ad agire prima che sia troppo tardi.
Il tuo ultimo libro, Il tempo e l’acqua, tratta di cambiamento climatico, ma è anche ricco di aneddoti personali, storie familiari, riferimenti culturali. Come sei giunto a questa scelta?
Mi sono ispirato a scrittori che hanno usato approcci misti verso le questioni molto grandi, come per esempio Umberto Eco, Rebecca Solnit e George Orwell, i cui saggi uniscono elementi personali, analisi e poesie. Ho trovato questo filo narrativo e l’ho unito alla voglia che avevo da tempo di mettere per iscritto la mia storia familiare e i racconti dei miei nonni. Inoltre sono sempre stato incuriosito dalla mitologia, e la storia dei miei nonni rappresenta la mia mitologia familiare. Poi ho avuto l’opportunità di intervistare il Dalai Lama e all’improvviso tutti i fili si sono uniti. Mi sono ricollegato al mito nel fargli una domanda e nella risposta lui si è riferito ai ghiacciai islandesi, che i miei nonni hanno esplorato. Così ho pensato che sarebbe potuto rientrare tutto in una singola storia. Il cambiamento climatico, l’argomento di cui volevo parlare, è un problema molto vasto, e volevo portare il lettore in un viaggio attraverso le diverse aree del cervello; il lettore avrebbe potuto essere razionale o anche una persona superstiziosa, religiosa o spirituale. E poi ognuno di noi ha un passato e un futuro, siamo individui ma anche parte della società. Quindi ho pensato che avrei potuto interessare il lettore sia con la poesia che con l’economia, senza dimenticare naturalmente la scienza.
© Alessandro Cristofoletti / LUZ
Nel libro a un certo punto scrivi “un’intera generazione di poeti affamati aveva saputo cantare lodi ai fiori e agli uccelli con tanta bravura che a metà del XIX secolo avevamo smesso di cacciare e mangiare un buon 50 per cento delle specie avifaunistiche islandesi”. Che ruolo pensi che possano avere oggi poeti e scrittori?
Nel libro mi riferivo ai poeti romantici, grazie ai quali non mangiamo i pivieri dorati dal XIX secolo. Quella era forse l’età d’oro dei poeti, in cui erano davvero capaci di muovere la società con una sola poesia: grazie a loro mangiare il piviere dorato significava mangiare amore, speranza e ogni sorta di cose che non vorresti distruggere. Oggi i nuovi ambiti scientifici, come la scienza del clima, si occupano della realtà con parole relativamente nuove: per arrivare a nuovi paradigmi però serve prima la comprensione, che non è un processo che avviene solo attraverso una parte del pensiero.
Quindi non bastano la politica e la scienza, servono anche l’arte, la poesia, la musica, la letteratura e le arti visive: nulla può diventare un paradigma a meno che non passi anche dall’arte.
Allo stesso modo la poesia è sempre stata accompagnata anche da altro, come la religione e le idee politiche.
© Sadegh Souri / Middle East Images / LUZ
Ne Il tempo e l’acqua spieghi come nel passato l’introduzione di nuove parole sia stata alla base di cambiamenti culturali, tramite nuovi significati e concetti, ma riferendoti all’attualità parli dell’esistenza di “una guerra alle parole”, nata dal fatto che sono queste a dare forma alla realtà. Pensi che le parole che abbiamo per parlare del cambiamento climatico siano abbastanza efficaci?
Non credo che sapremo la risposta finché non vedremo a quali risultati porteranno. Quello che posso fare è però spiegare quanto queste parole siano grandi. Prendiamo per esempio la parola emissioni. È una parola nuova che non fa venire in mente nulla: non è nemmeno come il fumo perché le emissioni sono invisibili. Come possiamo immaginare trentasei gigatonnellate di qualcosa di invisibile? Per questo mi chiedo se forse dovremmo tornare a un linguaggio più primitivo. Le emissioni provengono dal fuoco, una delle prime parole che abbiamo usato: forse se parlassimo in termini di fuoco ne capiremmo immediatamente la pericolosità del giocarci.
Le emissioni che produciamo equivalgono a seicentosessantasei vulcani che eruttano ogni singolo giorno, tutto il giorno, tutto l’anno.
E questa è una forza che sta superando qualsiasi altro evento geologico.
Avevamo bisogno di nuove parole, ma ora abbiamo anche bisogno di parole più antiche per capire che stiamo giocando con il più grande incendio che la Terra abbia mai visto.
E poi se chiedessi a un negazionista del cambiamento climatico se l’eruzione di seicentosessantasei vulcani fosse una cosa buona per il pianeta anche lui non potrebbe fare altro che dirti di no.
© Sebastian Wells / OSTKREUZ / LUZ
Relazionarsi in questo modo al cambiamento climatico è anche un modo di integrare la sfera dei sentimenti in un linguaggio dominato da numeri e statistiche?
Sì, il racconto del cambiamento climatico era diventato molto tecnico, così come le soluzioni.
Facciamo un esempio: dire a qualcuno “pensa ai tuoi figli, e ai figli dei tuoi figli” può non significare molto. Se ti fermi a calcolare fino a che anno i tuoi figli e i figli dei tuoi figli potrebbero essere ancora vivi le cose cambiano.
Nel libro volevo evitare l’alienazione: se leggi le notizie sul clima, per esempio, quasi tutte hanno come foto un orso polare, ma non credo che le persone riescano a empatizzare così tanto con gli orsi polari. Volevo farci riavvicinare alla questione e renderla più personale, perché il cambiamento climatico è forse la cosa più personale che potrebbe accadere, è come se il mondo venisse scosso sotto i nostri piedi. Approfondire questi metodi narrativi è un esperimento degno di essere provato: vivo come autore sulla Terra qui e ora con determinate abilità, e per questo ritenevo che fosse mio obbligo almeno capire il problema e le sue conseguenze. E così ho scoperto che mentre lo spiegavo a me stesso potevo effettivamente trovare un linguaggio che aiutasse anche gli altri a comprendere meglio.
Scrivi che i cambiamenti causati dall’eccesso di CO2 hanno ormai raggiunto una tale scala da poter essere ricondotti alla mitologia. Pensi che mettere in relazione il clima con il mito potrebbe spingerci all’azione?
Sicuramente non basta un solo racconto, serve una combinazione di argomenti e narrazioni. La mitologia è utile perché l’abbiamo sempre usata per spiegarci il mondo e per capirlo, perché si connette a noi in un modo molto profondo e viscerale. Ripensiamo a Cesare, Napoleone, Gengis Khan, Ramses II, nessuno di questi leader ha mai pensato di poter influenzare l’innalzamento degli oceani, mentre questo è ciò di cui stanno discutendo i leader delle democrazie del mondo ora. La storia accade quando accadono eventi come rivoluzioni, ideologie e guerre per territori e le risorse. Ma la mitologia riguarda le fondamenta: l’oceano, il sole, la creazione e la distruzione di mondi. Quando sbadigliamo di fronte alle notizie della prossima conferenza sul clima, dovremmo ricordarci che non sono mai esistite prima nella storia umana. E questo quanto è storico, mitologico e tragico allo stesso tempo?
© Sebastian Wells / OSTKREUZ / LUZ
Attraverso dei brevi passaggi sulla storia Islandese, racconti che nel passato l’assimilazione di nuovi concetti era un fenomeno che richiedeva centinaia di anni. Ora però non abbiamo così tanto tempo.
Nella lingua islandese è facile rintracciare l’arrivo di nuove idee e concetti, perché la storia letteraria è molto ben documentata, e ciò permette di capire quanto tempo ci vuole affinché una volta introdotta una parola essa diventi comune. Nel ventesimo secolo ci volevano circa 30 anni perché una parola diventasse comune, ma ce ne sono voluti cento affinché la parola democrazia diventasse realtà. Non abbiamo cento anni: ne abbiamo avuti trenta fino ad ora per capire il linguaggio del cambiamento climatico, ma abbiamo scelto di non farlo. Ci rimangono altri dieci anni per mettere in atto cambiamenti radicali e evitare il punto di non ritorno che gli scienziati hanno indicato.
Nel 2019 sei stato tra i partecipanti della celebrazione commemorativa del ghiacciaio islandese Okjokull, il primo perso a causa del riscaldamento globale, com’è nata l’idea?
L’iniziativa è nata da un gruppo di antropologi che studiano l’Antropocene e gli effetti del riscaldamento globale in tutto il mondo. Avevano notato che la perdita del primo ghiacciaio era passata inosservata e quindi si sono chiesti: “se il riscaldamento globale è un evento di portata mondiale, come le guerre del Novecento, dove sono i monumenti che ricordano il momento storico?” Così è venuta l’idea di installare una targa e mi hanno chiesto di scrivere il testo da incidere.
Il monumento è stato pensato per ricordare a noi stessi che stiamo vivendo in tempi storici, che non dovremmo considerare una notizia normale la perdita di un ghiacciaio.
L’installazione è stata inoltre un modo di indicare dove siamo, e chiederci dove vogliamo dirigerci. Quando l’ho scritta pensavo che solo le poche persone che sarebbero salite su quella montagna l’avrebbero letto, invece è probabilmente il testo più conosciuto di tutto ciò che ho scritto.
Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
Proprio di fronte al punto dell’installazione è possibile vedere uno dei ghiacciai più grandi dell’Islanda, a cui accadrà la stessa sorte, così come per centinaia di altri ghiacciai. Ero lì in piedi immaginando che a cinquanta metri sopra la mia testa ci sarebbe dovuto essere un grande strato di ghiaccio, e invece ora c’è solo roccia nuda. È strano e bisogna usare molta immaginazione. È come quando una valle viene allagata, ed è difficile capire che sotto, nel fondo della piena, prima c’era qualcosa. E ancora più sconvolgente è camminare sui ghiacciai ancora esistenti, sapendo che sotto i tuoi piedi ci sono mille metri di ghiaccio che scompariranno nel corso della tua vita.
© ATS / Greenpeace / Panos / LUZ
In questi anni in cui la politica si è polarizzata, la questione climatica è stata raccontata come una preoccupazione riguardante chi si pone ideologicamente a sinistra. È possibile estendere la narrazione in modo da far sentire tutti inclusi?
Nel mio libro ho voluto rimuovere la politica, per affrontare la questione da una prospettiva comune e umana. I miei nonni, che hanno a lungo esplorato i ghiacciai Islandesi, avevano (e hanno tutt’ora) una prospettiva conservatrice, ma l’esplorazione del ghiacciaio non era un fatto politico, a unirli agli altri componenti del gruppo era l’amore per la montagna. E in questi viaggi partecipavano persone con idee politiche differenti e provenienti da diversi ambienti: c’era mio nonno che ha lasciato la scuola quando aveva undici anni, ma anche un geologo, una delle prime persone di quella generazione ad aver ottenuto il dottorato in Islanda. Io non voglio fare appello solo a chi condivide la mia ideologia. Ovviamente la risposta al problema dovrà essere politica, ma è importante che tutti rispondano. Il libro ha inizio tra l’edificio simbolo del crollo del comunismo in Islanda e l’edificio simbolo del crollo del capitalismo estremo; si trovano fianco a fianco, nella stessa strada; ciò mi fa chiedere piuttosto quale ideologia sarà abbastanza grande per affrontare un problema del genere. E sarà necessario anche un cambiamento del linguaggio con cui ci inquadriamo nella società. Il movimento #metoo per esempio punta a eliminare un comportamento dai luoghi di lavoro tramite la riformulazione del linguaggio e l’attivismo per i diritti individuali.
Serve qualcosa di simile, che smetta di farci credere che possiamo prendere ciò che vogliamo dalla natura senza conseguenze: al momento non esistono parole che ci definiscono colpevoli per averlo fatto fin’ora.
© Didier Ruef / LUZ
Raccontando le spedizioni dei tuoi nonni spieghi come quelle fossero esperienze in cui appassionati potevano collaborare attivamente con gli scienziati. Allo stesso modo nel tuo libro affianchi storie personali e passaggi letterari a dati e informazioni scientifiche. La collaborazione tra gli studi umanistici e la scienza è una strada che dovremmo intraprendere?
Sì, ed è vitale. Io credo che sia un dovere civile capire cosa sostengono gli scienziati. Mi ci è voluto molto tempo per essere in grado di leggere il linguaggio della scienza, perché nel leggere i rapporti dovevo esplorare ambiti diversi tra loro, come la scienza dei coralli e quella dei ghiacciai, ognuno dei quali richiede migliaia di pagine per essere capito. Quando studiavo matematica nei primi anni di università ho notato che le più belle equazioni scientifiche eliminano tutto il superfluo per arrivare a un cuore di soli tre o quattro elementi. E anche la poesia elimina tutto il rumore per arrivare al nocciolo. All’inizio la scienza mi intimoriva perché è un ambiente che non vuole interferenze dai non addetti ai lavori, così come la letteratura. Poi ho incontrato molti scienziati che mi hanno incoraggiato nella stesura di questo libro, nella convinzione che i non esperti dovessero fare proprio l’argomento, inserendolo nel proprio contesto e anche che anche la scienza stessa, oggi frammentata in molti campi diversi e iperspecializzati, avesse bisogno di un livello intermedio per comunicare e chiarire il contesto del proprio lavoro. Sono molto grato a coloro che mi hanno incoraggiato e felice di aver potuto aggiungere qualcosa alle loro competenze.
Nel 2016 ti sei candidato alle elezioni presidenziali in Islanda. È stato un modo per avere un impatto anche sul lato politico, oltre a quello divulgativo?
Il presidente in Islanda è una figura più che altro rappresentativa, una persona dotata di soft power che esercita la sua influenza tenendo discorsi o tramite ciò che mette all’ordine del giorno. L’Islanda sta avvertendo il cambiamento climatico, che ne colpisce soprattutto gli oceani e i ghiacciai: mi sono candidato perché è una cosa a cui dovremmo dare voce a livello internazionale, creando consapevolezza e unendo le persone, che dovrebbero incontrarsi per aumentare la velocità del cambiamento. Non ho mai fatto effettivamente parte di un partito politico, mi sono presentato come attivista. Ammetto che è stato difficile, perché una cosa è invogliare le persone a leggere il tuo libro, un’altra convincerle a scegliere te come presidente: è stata una strana sensazione di vanità. Ora però rispetto di più i politici: desideriamo la democrazia, una situazione in cui c’è bisogno che qualcuno si esponga, che al posto di lamentarsi e basta prenda l’iniziativa, e quindi anche le colpe. Consiglio a tutti di provare a farsi eleggere una volta nella vita, che sia per diventare consigliere comunale o anche solo il capo della propria squadra sportiva.
Foto di copertina © ATS / Greenpeace / Panos / LUZ