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Gender Fluidity a fumetti

Dalla Gender Fluidity a nuovi immaginari LGBTQI+: il fumetto può essere il miglior strumento per parlare di temi “scomodi”. L’intervista ad Antonia Caruso

di Veronica Tosetti

Antonia Caruso è editrice, sceneggiatrice di fumetti e attivista trans/femminista. È uscito da poco in libreria Queer Gaze, raccolta di saggi da lei curata, in cui si analizza il ruolo della serialità televisiva nella costruzione di un nuovo immaginario LGBTQI+ mainstream. Ha fondato insieme a Federico Peteliko Pugliese Edizioni Minoritarie, associazione indipendente che pubblica “fumetti, libelli e libercoli politici, libri remixati composti e ricomposti” che parlano direttamente delle ferite non rimarginate della contemporaneità. Sui social è attiv(ist)a fomentatrice contro i “gianpeople”, gli utenti etero-basic medi, a difesa delle identità trans e non-binary, spesso mal rappresentate dalla stampa.

Ho letto il fumetto da te sceneggiato all’interno della raccolta Sporchi e subito, curata da Fumettibrutti per Feltrinelli Comics: quasi un elogio all’antisocialità. Un tema attuale quanto ormai anacronistico rispetto a quello che stiamo vivendo con questi lockdown…
Il racconto dell’antologia, illustrato da Percy Bertolini, più che sull’antisocialità è sul compromesso della socialità, su quanto in alcune situazioni pur di non stare da solə si accetta una socialità degradante. Il compromesso era anche il tema che ci ha proposto Fumettibrutti come curatrice. Abbiamo ideato questa storia molto prima della prima fase di lockdown, dove c’è stato tanto compromesso e poca socialità. Poi magari il compromesso c’è, ma è sulla non socialità e quindi via di aperizoom.

È da poco uscito il tuo libro Queer Gaze per Asterisco Edizioni, dove ti concentri sulla rappresentazione LGBTQI+ nelle serie tv: “A partire dai noti marchi di produzione cinematografica che da anni ormai sponsorizzano alcuni tra i più grandi cortei dei Pride nel mondo occidentale”. Il rainbow washing porta anche cose buone, dunque?Nessun tipo di washing (pink washing, rainbow washing, green washing) porta cose buone. O meglio, il washing porta benefici sul breve periodo, porta visibilità ma non un cambio strutturale, soprattutto se parliamo non solo di diritti, ma di accesso al lavoro e parità di retribuzione. Netflix e concorrenti hanno capito che le produzioni LGBTQI+ hanno il loro pubblico, ne stanno sia approfittando in termini di ritorno economico, ma stanno sicuramente gettando le basi anche per una varietà maggiore. Pensiamo al ruolo centrale che stanno avendo figure come Ryan Murphy, Janet Mock o Joey Soloway nel creare anche un ambiente lavorativo che dia la possibilità a sempre più persone LGBTQI+ di lavorare nell’ambito della serialità televisiva. È anche vero che le soggettività che possono essere rappresentate devono essere il più normalizzate possibili. 

Cioè?
Le coppie dello stesso genere ok, ma se hanno desiderio di genitorialità è meglio. Le persone trans ok, ma se hanno un passato di sofferenza è meglio. Le persone bisex ok, ma se non ci sono è meglio, perché sono difficili da mettere in scena se non c’è promiscuità. Il sesso non etero ok, ma se in una cornice fantascientifica è meglio. Sex work ok, ma se c’è della violenza e del dolore e del disagio è meglio.

 

Insomma il rainbow washing ok, ma solo se il ricavato non va alle aziende ma alle persone. 

 

© Federico Peteliko Pugliese

 

Hai curato la parte del bollettino per i diritti LGBTQI+ di “A Buon Diritto”, dove esordisci così: “Quanto più la legislazione riguardante una popolazione minoritaria è limitata, infatti, tanto più le esperienze e le tutele saranno non rappresentate e marginali, o addirittura proprio al di fuori dei confini del diritto.” In Parlamento è stata finalmente approvata una legge contro l’omolesbobitransfobia. Però tu ci avevi visto molte criticità sin dalla proposta Zan, e adesso? Se potessi fare tu le leggi, da dove partiresti?
Le leggi regolano e sanzionano dei comportamenti, ma non delle emozioni negative, cioè il disgusto che c’è dietro la violenza omolesbibitransfobica. Il lavoro da fare non è solo creare un deterrente punitivo, ma creare una cultura delle diversità senza che queste diversità però vengano santificate. Però no, non saprei da dove iniziare per fare una legge. Probabilmente inizierei con una patrimoniale per finanziare iniziative sulla salute pubblica. Oltre alle ovvie di cui abbiano necessità nel bel mezzo di una pandemia, e poi educazione di genere e all’affettività e alla sessualità, rafforzerei i consultori psicologici dentro le scuole e sul territorio.

 

La psicoterapia dev’essere un diritto non un privilegio. 

 

Un discorso a parte poi sulla legislazione che riguarda le persone trans, con una legge ferma al 1982 e processi di patologizzazione anche molto difficoltosi da seguire per il grado di normatività presente. 

Torniamo all’editoria e al tuo progetto Edizioni Minoritarie: perché aprire una casa editrice e perché “minoritaria”?
Noi non siamo proprio una casa editrice. Siamo più un progetto controculturale e non lo dico per ammantarmi di un velo di intellettualismo un po’ blasé. Siamo in due, io e il disegnatore Federico “Peteliko” Pugliese. Formalmente non siamo una casa editrice ma un’associazione. Abbiamo scelto la forma associativa perché da una parte, almeno all’inizio, è abbastanza insostenibile una forma più strutturata, e dall’altra perché crediamo in una forma partecipata di cultura. Non parliamo solo di noi, per questo lo chiamo progetto culturale. Ogni settimana ad esempio curo una rassegna stampa su Telegram di quello che trovo in giro sui nostri temi: transfemminismo, antirazzismo, cultura pop, fumetti e industria culturale e come tutte queste cose si intersecano. Al momento ci sosteniamo tramite Patreon e con le vendite. Per “ci sosteniamo” intendo che paghiamo le spese e paghiamo chiunque lavori con noi. Infine “minoritarie” perché abbiamo una posizione minoritaria nel contesto culturale (non è per tirarcela, è proprio così) e perché almeno io sono una soggettività minoritaria, dato che sono una donna trans non etero. 

Che tipo di opere pubblicate e che cosa cercate?
Il nostro catalogo è ancora un po’ risicato anche causa pandemia globale in corso, ma abbiamo grandi progetti. Presto uscirà la versione cartacea di una pubblicazione dedicata a Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson, due delle persone trans protagoniste dei moti di Stonewall, che poi hanno continuato la loro azione politica con lo S.T.A.R., offrendo aiuti e rifugio alle persone trans in difficoltà. Poi abbiamo in cantiere un libro di autodifesa femminista, un’antologia di fumetti sulla maschilità, una collana di tesi che renda accessibile l’enorme lavoro nascosto dentro l’accademia. Contemporaneamente abbiamo la parte del blog che poi se avesse un piano editoriale più serrato non esiterei a chiamare rivista che ospiterà sempre più web-comic (il nostro modello è un po’ The Nib) e interventi critici. 

Perché i fumetti sono così importanti nella vostra linea editoriale?
Lo sono perché di base ci piacciono. In più Federico è un disegnatore di fumetti e io sono una sceneggiatrice.

 

I fumetti quando non sono didascalici o egoriferiti possono essere il migliore strumento per parlare di alcuni temi.

 

Faccio l’esempio straconosciuto di Persepolis, così come il webcomic Lighten Up di Ronald Wimberly che abbiamo tradotto e pubblicato sul nostro sito. 

 

© Frad

 

Hai criticato Cinzia di Leo Ortolani, la cui protagonista è una donna trans, che però ha avuto un grande plauso da anche molte realtà LGBTQI+. Perché non andava bene?
In origine Cinzia era un personaggio secondario di Rat Man, era un postino che scopre di essere gay e si innamora non corrisposto del protagonista. Era un personaggio abbastanza grottesco, seguiva lo stereotipo dell’ambivalenza di un corpo ipermuscoloso e di un desiderio maschile con una emotività e dei comportamenti femminili. 

Un personaggio del genere aveva una grande potenzialità narrativa e infatti Ortolani ci ha provato parecchi anni dopo. Partendo da un postino gay che diventa una trans muscolosa era difficile peggiorare ulteriormente la situazione, per cui anche la cosa meno peggiore sembra un grande passo avanti. Non so chi abbia avuto la malsana idea di farci un fumetto lungo, se Ortolani stesso o qualcuno della Bao, fatto sta che è venuto fuori un fumetto per certe cose divertente (se piace Ortolani), ma molto incentrato sulla lunghezza del suo pene e su altre caratteristiche che esaltano il lato grottesco di Cinzia (cioè, appunto il suo pene). Il fatto che abbia dato a un personaggio parodistico una qualche specie di vita emotiva dagli aspetti romantici e che abbia usato l’espediente del musical hollywoodiano mitiga molto la sottile transfobia di Cinzia, come anche il finale, che è solo parzialmente risolutivo, nel senso che c’è Cinzia esce dal desiderio romantico che la fa soffrire.

 

Il punto è che non essendoci molto altro, oltre Fumettibrutti, in tema di rappresentazione trans e fumetti si finisce per farsi andare bene qualsiasi cosa.

 

Quindi il problema è proprio la transfobia?
Cinzia ha ben poco di liberatorio e dissacrante, dal momento che gli scherzi sui peni delle donne trans sono già oggetto di scherzo, mentre ad esempio le lesbiche vegane no ed è una delle battute che le persone ricordano meglio. Se il meglio che possiamo sperare in una rappresentazione è una storia scialbamente empowering, forse preferisco il nulla. Per non parlare di come Ortolani, che comunque continua a piacermi come autore, sia diventato un’icona LGBT, continuando a disegnare Cinzia e il suo lungo pene nascosto, fino a impersonare Cinzia in un’intervista, ad approvare uno spettacolo teatrale tratto da Cinzia (interpretata da un uomo cis), a disegnare la locandina per il Lovers, un festival di cinema LGBTQI+ di Torino. E questo è un discorso che esula da Cinzia e da Ortolani. È la cultura mainstream, sia eterocis, che LGBTQI, che usa, per non dire fagocita, il mito della paillettes senza restituire nulla né in termini economici né in termini di immaginario o di complessità.

E invece che problemi ha la stampa italiana con le persone trans? Possibile che siamo tutti così ignoranti in merito?
Non solo è possibile, è proprio così. Le soggettività trans stanno cambiando, stanno uscendo allo scoperto, siamo un po’ ovunque, ma perché siamo ovunque nella popolazione. Le stesse persone trans in realtà spesso non sanno che fare, divise tra le istanze medico-legali (fai la perizia, paga la perizia, vai al centro, fatti dare gli ormoni, mettiti in fila dal giudice, fatti dare l’ok per avere i documenti nuovi o la rettifica anagrafica), la destra cattolica e le terf, le cosiddette femministe radicali trans-escludenti, che non passa giorno che non facciano partire attacchi contro la popolazione LGBTQI. In tutto ciò la stampa non si vuole formare per una serie di motivi, perché sarebbe un investimento economico, perché mancano delle fonti (in realtà internet è pieno di fonti, anche in italiano, ma sono un po’ nascoste tra i profili social delle varie associazioni, collettivi e gruppi), perché è più comodo, in termini sia di tempo che di notiziabilità, dare una notizia eliminandone la complessità. Vedi ad esempio l’entusiasmo per la gratuità degli ormoni. A saper leggere meglio i vincoli per ottenere la gratuità sono molti e non a vantaggio delle persone trans. È sempre più facile attenersi a una narrazione già conosciuta come quella del corpo sbagliato, della sofferenza, della rivincita sociale nonostante. Elementi che non sono di per sé sbagliati, così come l’equivalenza tra essere trans e sex work che era la narrazione dominante fino a non molti anni fa, ma non possono essere l’unica narrazione e soprattutto è una narrazione portata avanti non dalle persone trans.

 

Alla fine le cose base da sapere non sono tante. Pronomi giusti. Trans non è un sostantivo ma un aggettivo. Le persone trans possono non essere etero. Le persone trans possono non voler rettificare i propri genitali e possono voler fare una transizione senza ormoni. 

 

 

© Caterina di Paolo

 

A proposito di desiderio e attrazione, in un tuo saggio breve spieghi la transfobia nascosta sia di chi esclude esplicitamente le persone trans dalle proprie preferenze sessuali e sia di chi ne fa della feticizzazione. Come se ne esce?
Se ne esce uscendoci (con noi, s’intende).

 

In questo momento viviamo in un paradosso del desiderio piuttosto evidente. È talmente evidente che non la vediamo. Per anni le donne trans sono state l’oggetto di un desiderio che non si poteva dire, non si poteva menzionare. Per questo sono state sbattute nella zona nera della vita, anche con un certo compiacimento.

 

Tutta la retorica del mondo della notte, del proibito, della lussuria. Ecco, ora ne stiamo parzialmente uscendo. Il punto è che il desiderio da parte di certi maschi etero di avere dei rapporti con donne trans non operate, magari in rapporti penetrativi passivi, c’è ancora. Era un po’ una roba da ricchi depravati anche. Non dimentichiamo lo scandalo Marrazzo (che ha fatto morire anche alcune delle donne coinvolte) o le storie di Lapo Elkann. Ogni tanto la escort leghista Efe Bal dice cose, ma lasciano un po’ il tempo che trovano.

Il punto è lasciar uscire il desiderio per quello che è, tanto, come dire c’è già. Come anche il crossdressing, che è ancora un tabù molto grande (a proposito di feticizzazione). Quindi insomma abbiamo sì quasi una deumanizzazione delle persone trans, anzi delle donne trans, anzi delle donne trans non operate, che porta alla feticizzazione. Un approccio più rilassato verso il sex work e un lavoro emotivo contro la maschilità tossica eviterebbe o almeno attenuerebbe l’enorme violenza che subiamo ogni giorno su vari livelli.

Autrice, attivista, editrice, ma non solo: gestisci la pagina Teorie Gender per la Vita insieme ad altr*. I “gianpeople” sono il vostro nemico: spiegheresti come si riconoscono e qual è il loro problema?
Gestisco la pagina insieme ad admin L. Non ci coordiniamo, sono i nostri gender che comunicano genderpaticamente. Quello che dirò a proposito della pagina, in ogni caso, sarà solo a titolo personale. I gianpeople li riconosci dal colletto della polo alzato, e dalle Hogan. Sono gli arricchiti, anche se il gianpeople è trasversale alle classi sociali e ai generi, sono quelli che fanno le battute sessiste e razziste, che dicono le donne non si toccano nemmeno con un fiore, quelli che parlano del partner come “il mio uomo” e “la mia donna” e che per questo sono pien* di gelosia e fanno le scenate e così via. Gente brutta insomma, come lo siamo un po’ tutt* noi.

Avete un tono molto poco conciliante: non credi che possa essere controproducente per avvicinare le persone alla “teoria gender”?
Ma tanto se spieghi le cose tutte a modino non capiscono, a questo punto meglio prendere le persone a badilate in faccia, almeno c’è un po’ slapstick e si ride. A parte tutto il tono “poco conciliante”, come diplomaticamente dici, ha un valore politico perché dietro c’è molta rabbia e un rifiuto dell’idea dell’individuo LGBTQI mosso solo dall’amore e dalla favolosità. Non siamo qui per fare didattica a chi non vuole capire. Hai fatto bene tu a intervistarmi perché a domanda rispondo (anzi ti ringrazio molto perché non hai fatto domande sullo stato dei miei genitali. È legittimo chiederlo, ed è ancora più legittimo declinare), se ti devo spiegare le cose perché non sai usare un motore di ricerca o leggerti un articolo allora ti lascio in balia del sarcasmo.

 

Grafica di copertina © Nicoz Balboa

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