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Arte in rivolta

La rinascita della cultura araba in otto capitoli: Chiara Comito ci racconta Arabpop.

di Andrea Aufieri

Con un lieve slittamento dovuto alla pandemia, è arrivato nelle librerie reali e virtuali un lavoro meticoloso e unico di analisi delle arti visive, della musica e della letteratura dei paesi che nel 2011 erano stati interessati dalla cosiddetta “primavera araba”: si chiama Arabpop (Mimesis Edizioni, 2020).

Il libro è dedicato a Lina Ben Mhenni, attivista tunisina, scomparsa il 27 gennaio 2020 a 36 anni perché afflitta da una malattia cronica. Con il suo blog A Tunisian Girl divenne la vera e propria voce dalla culla della rivoluzione tunisina.

Suddiviso in otto capitoli, il saggio collettivo affronta la rinascita della cultura araba partendo dal contesto che ha portato ai fatti di Piazza Tahrir fino alla reazione o al reflusso dei nostri giorni. Abbiamo provato a interpretarne segnali e scenari in un dialogo con Chiara Comito  – curatrice del saggio insieme a Silvia Moresi, ndr – , provando a dare uno sguardo al futuro anche laddove questo esercizio sembra più complesso e provando a esaltare il valore che il libro assume nel tentativo di trasmettere agli occidentali e in particolare agli italiani una cultura più prossima di quanto si possa credere.

 

© Nora Lorek / Panos Pictures / LUZ

 

Chiara, perché hai deciso di rivolgere la tua professionalità al mondo arabo e cosa ha portato all’esperienza con Editoriaraba.com?
Tutto nasce dalla mia formazione universitaria: mi sono laureata in Lingue, specializzandomi in Arabo, e poi ho proseguito con la laurea specialistica in Relazioni Internazionali con un focus sul mondo arabo. Mentre studiavo, ho cominciato a tradurre gli articoli della stampa araba in italiano per uno dei primi siti online che si occupavano del settore: era poco dopo il 2001 e gli stereotipi su arabi e musulmani erano onnipresenti, dai media alla politica, passando per le chiacchiere in strada. Insieme ad uno dei miei professori e ad alcuni compagni di corso fondammo un’associazione culturale che si chiamava Arabismo e che organizzava eventi culturali. Avevamo anche un sito omonimo, che traduceva la stampa araba. Fu una bellissima esperienza che mi permise di mettermi alla prova sia come autrice di articoli sulla letteratura araba – un campo di studi che avevo scoperto all’università – e come organizzatrice di eventi, legati soprattutto ai libri. Quando l’esperienza con Arabismo terminò, decisi di portare il mio bagaglio di contatti e conoscenze in un progetto tutto mio, ovvero Editoriaraba.com, che ho fondato nel 2012. Da allora ho fatto un po’ di strada, che mi ha portata ad Arabpop.

È un caso che le autrici di Arabpop siano tutte donne (Catherine Cornet, Fernanda Fischione, Anna Gabai, Luce Lacquaniti, Anna Serlenga, Olga Solombrino), pur non contemplando solo l’universo artistico femminile?
Sì, è un caso, non è stato intenzionale! Io ho contattato un primo gruppo di ricercatrici ed esperte che conoscevo da anni e poi sono venuti fuori altri nomi, sempre di donne. Non so dire se sia accaduto perché in Italia ci sono più studiose donne che si occupano di promozione culturale e ricerca nel campo delle arti arabe. Sono molto contenta e orgogliosa della “squadra” di Arabpop: siamo tutte appassionate della materia, esperte e con un occhio aperto e curioso verso la divulgazione. Arabpop non è un libro al femminile o femminista nel senso che si occupa di dinamiche di genere: abbiamo analizzato artisti e artiste, scrittori e scrittrici. In alcuni capitoli ci sono dei focus sulle donne, ma sono inseriti all’interno di un contesto più ampio.

Insieme a Silvia Moresi, nell’introduzione spiegate benissimo l’impiego del termine “pop” nel titolo, eppure chiamate subito in causa la prospettiva eurocentrista che rischia di soffocare negli stereotipi una diversità culturale preziosissima. Ma non ti sembra che i meccanismi di emersione degli artisti arabi ricalchino quelli occidentali? È possibile una via diversa o è necessaria una cooperazione tra Occidente e Medio Oriente nel campo della produzione, distribuzione e fruizione dell’industria culturale araba contemporanea? Esistono esempi come le fiere del libro “non colonizzate”?
Dipende cosa intendiamo con “meccanismi di emersione”: che sono saliti alla ribalta nel loro paese o che sono diventati noti anche in Europa? Le cose sono diverse.

 

Non è detto che uno scrittore molto noto nel suo paese venga per forza tradotto nel nostro, ad esempio. Viceversa, autori che qui vengono molto tradotti e letti, non necessariamente (o almeno, non sempre) sono tra i più letti e apprezzati nel proprio paese di origine, e questo solo per fare un discorso legato alla narrativa.

 

Le dinamiche del mercato del libro italiano differiscono da quelle del libro arabo, e vale la stessa cosa anche per il mercato anglofono o francese: è una questione di sensibilità, di gusti dei lettori, di bagaglio culturale. Quanto alle fiere del libro arabe, anche queste rispondono a logiche diverse e differiscono in base al paese che le ospita. Ad esempio, in Egitto da quando c’è Abdel Fattah al-Sisi al governo, la Fiera del libro del Cairo è diventata ancora più uno strumento di propaganda culturale a favore del regime. La Fiera del libro di Abu Dhabi invece, dopo aver intrecciato per anni una partnership molto proficua con quella di Francoforte, la più importante al mondo, da qualche tempo ha deciso di rendersi “indipendente” e questo si è visto in una riduzione del numero di editori stranieri e in un aumento del numero di eventi con ospiti più “locali” (e questo non è necessariamente un male). Quanto al campo della fruizione della cultura araba in Italia, sicuramente c’è bisogno di fare di più ma non posso non citare diversi esempi virtuosi: il Festival del cinema di Firenze Middle Est Now che da più di dieci anni porta nel nostro paese cineasti, artisti e intellettuali dal Nord Africa e dal Medio Oriente; o le case editrici – soprattutto indipendenti – che traducono la letteratura araba in italiano, investendo su libri e autori che in Italia sono semisconosciuti e che a volte sono visti con qualche diffidenza; i festival letterari che invitano intellettuali dai paesi arabi a confronto con i loro colleghi europei, americani o asiatici; o realtà come Musicalista, che negli anni ha portato diversi musicisti arabi e africani sui palcoscenici italiani; o, infine, le librerie indipendenti come Griot e Tamu, che sono specializzate in letterature da Africa, Medio Oriente e dai vari sud del mondo. Si tratta di buone pratiche che vanno conosciute ma soprattutto valorizzate.

 

© Karrar Nasser / Middle East Images / LUZ

 

Hai scritto di letteratura, campo nel quale sembra appurato siano necessari tempi più lunghi per cogliere le sfumature della primavera araba, ma è possibile rispondere alla domanda che poni nel tuo capitolo: è davvero il momento del romanzo arabo o dovremo aspettare ancora?
Il romanzo nel mondo arabo da decenni ormai si è attestato come forma espressiva, andando ad affiancarsi alla poesia che è sempre stata la forma letteraria privilegiata dagli arabi. Anche nei paesi arabi esistono i romanzi bestseller, che vengono promossi con più o meno le stesse strategie editoriali che esistono nei mercati del libro stranieri. Come ho scritto nel mio capitolo, nei paesi arabi il romanzo viene promosso dagli editori tramite gli eventi letterari, le fiere del libro, i book club e soprattutto i premi. Il numero di lettori forse non è elevatissimo, ma allo stesso tempo dobbiamo domandarci quanti siano i lettori in Italia. Quanto al nostro paese, non dobbiamo aspettare perché sono ormai più di tre decenni che la narrativa araba viene tradotta con una qualche continuità in italiano, seppure i numeri siano ancora un po’ bassi: possiamo dire che, di media, ogni anno l’Italia traduca dai dieci ai quindici titoli di letteratura di autori arabi e della diaspora, che scrivono in arabo, inglese o francese. Si tratta di numeri in linea con la Francia, dove il mercato delle traduzioni dall’arabo sorprendentemente registra cifre un po’ basse.

Mi ha affascinato molto il capitolo sulla poesia: toccare questo argomento in Medio Oriente significa provare un confronto con quella che per millenni è stata la tradizione genuinamente popolare di quelle aree, come hai puntualizzato anche tu. Le primavere arabe hanno dato a tuo avviso l’impulso a una vera e propria scuola nuova di poeti o si resta all’ombra del passato?
Come ha scritto Silvia Moresi nel suo capitolo, la poesia ha accompagnato tutti i movimenti di protesta dal 2010 in poi, e un nuovo gruppo di poeti è emerso dalle piazze, che è stato a sua volta influenzato dalle proteste e ha innovato i propri codici, linguaggi e modi di espressione attraverso l’uso dei social media come Facebook o i videoclip poems. Questa nuova generazione si affianca (senza oscurarla) alla precedente generazione, composta da poeti del calibro di Mahmud Darwish, Ghassan Zaqtan o Murid al-Barghuthi, giusto per citare dei nomi di poeti i cui lavori sono disponibili anche in italiano.

 

La poesia araba – quando viene declamata – ha una musicalità e un’eleganza espressiva di altissimo livello, che affascina anche i lettori che non conoscono l’arabo.

 

In traduzione, se ben resa, può essere ugualmente apprezzata anche dai lettori italiani. In tutti i festival ed eventi letterari organizzati al di fuori della regione araba, gli incontri con i poeti arabi sono tra i più belli e apprezzati.

Più immediate la musica e le arti visive, dalla street art alle installazioni e dalle produzioni audiovisive di tutti i generi. Ti sembra che tutto questo possa davvero portare a un nuovo immaginario collettivo e ridefinire i paradigmi artistici?
Mettiamola così: io mi auguro che i lettori di Arabpop, soprattutto attraverso la lettura dei capitoli dedicati alla musica e alle arti visive, possano sviluppare un nuovo immaginario e ridefinire quelli che sono stati finora i confini entro i quali si sono mossi quando si sono approcciati alla cultura araba.

 

L’idea del libro è stata proprio questa: portare ai lettori italiani uno sguardo nuovo, originale e il più possibile aperto sulle nuove istanze e movimenti culturali che provengono dalla regione araba.

 

© Karrar Nasser / Middle East Images / LUZ

 

Dopo i sogni del 2011, in molti dei paesi di cui vi siete occupate le cose sono precipitate in modo drammatico, come in Egitto. Gli artisti militanti sono sempre gli stessi di dieci anni fa o c’è una nuova linfa vitale che affronterà le nuove sfide? È possibile fare dei nomi?
In Egitto negli anni le cose sono peggiorate esponenzialmente per tutte le voci libere, dagli artisti, agli intellettuali, fino agli attivisti. Hanno chiuso librerie e centri culturali, mentre i rappresentanti politici e gli attivisti promotori di quella stagione di rivolte iniziata nel 2011 sono in carcere – come l’attivista Alaa Abdel Fattah – o sono stati costretti ad emigrare all’estero, come lo scrittore Ahmed Naji, che dopo un lungo calvario giudiziario a causa di un suo libro ora si trova negli Stati Uniti. La pandemia e le relative restrizioni inoltre hanno complicato ulteriormente la situazione per la scena culturale di qualsiasi paese, figuriamoci quella in cui già era problematico prima. Tuttavia, in Egitto alcune realtà culturali come festival del cinema o gallerie d’arte stanno ridisegnando sia gli spazi fisici sia tutta l’esperienza culturale, esplorando le infinite possibilità del digitale, per esempio. Questa della pandemia è sicuramente una sfida dura da affrontare, ma la creatività degli egiziani saprà sicuramente superarla con ingegno e originalità.

 

Foto di copertina © Pascal Meunier / LUZ

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