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La vita tosta

Daniele Mencarelli con “Tutto chiede salvezza” torna nel Tso della sua adolescenza: un libro dedicato ai lottatori e ai pazzi.

di Bernardo Cedone

Daniele Mencarelli con il suo secondo romanzo intitolato Tutto chiede salvezza (Mondadori, 2020) ha raggiunto la finale del premio Strega 2020 e si è portato a casa il premio Strega Giovani, aggiudicato al suo libro da una giuria di ragazzi tra i 16 e i 18 anni, più o meno l’età del suo giovane protagonista.

Il romanzo si apre nell’estate del ’94 quando Daniele, vent’anni, si ritrova ad affrontare la prova più dura: un trattamento sanitario obbligatorio in un reparto psichiatrico, causato dall’ultimo scoppio di una vita – se pur così giovane – già fuori controllo. Quei sette giorni che si annunciavano come il più terribile degli incubi si riveleranno in realtà un viaggio, che continua ancora oggi. Il romanzo – senza esclusione di colpi – è totalmente autobiografico.

Caldo record e mondiali di calcio alle porte. È il 14 giugno 1994 quando Daniele Mencarelli, all’età di soli vent’anni, viene ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio. Come era stato possibile? Chi era Daniele Mencarelli a vent’anni?
Il Daniele dell’epoca, che poi è in stretta continuità con l’uomo che ti parla in questo momento, è un ragazzo che è arrivato alla soglia dei vent’anni e che fino al quel momento ha sostanzialmente vissuto per imitazione. Per imitare il fratello e il papà ha lasciato l’università, si è scelto un lavoro e cerca così di aderire a un modello.

 

Purtroppo, o forse per fortuna, è sufficiente un incontro a far saltare la recita.

 

A che incontro ti riferisci?
È l’incontro che fa da premessa al romanzo. Daniele di mestiere vende climatizzatori, ed entra nella casa di due pensionati in un paese in provincia di Latina, Cisterna di Latina per l’esattezza. Con grande scioltezza e tranquillità inizia quella che è a tutti gli effetti la sua solita recita, ed è molto bravo, sta per vendere il climatizzatore e pregusta il momento più bello del suo lavoro, quando potrà contare quanto intascherà.

 

Ma è allora che accade un imprevisto che lo manda completamente fuori: da una stanza della piccola casa esce un uomo sulla quarantina, o almeno il suo involucro. Quell’uomo infatti era stato toccato da una sciagura stradale e da un lungo coma.

 

Quello che sulla carta doveva essere un uomo di quarant’anni, era in realtà ridotto allo stato di un bambino. L’uomo si siede accanto a Daniele e inizia ad accarezzarlo.  È questo gesto inaspettato che prende il protagonista alla sprovvista, e carezza dopo carezza l’impianto traballante della sua recita si smonta.

 

Daniele fugge via dalla casa, e di lì inizia la spirale di ira che lo porterà al Tso. Allo psichiatra che gli chiederà spiegazioni Daniele risponderà di avere rivisto lì ciò che da sempre sentiva dentro di sé: l’impossibilità di vivere senza senso, senza significato. “Se è tutto senza senso non lo accetto, allora preferisco morire”, dice al medico.

 

È l’inizio del Tso di Daniele, che sei tu in tutto e per tutto, vero?

 

Tutto quello che ho raccontato è assolutamente auto-biografico.

 

C’è ovviamente un elemento di traduzione in letteratura, ma la materia di fondo è assolutamente accaduta.

 

Fin dal primo momento Daniele, catapultato in un reparto psichiatrico, è incapace di rimanere indifferente di fronte al dolore di cui è testimone e grida: “Possibile che nessuno s’accorge che semo come ‘na piuma? A che cazzo serve tutto?” Alcuni credono che domande come queste, sul senso della vita, siano da adolescente, e i ragazzi che ti hanno premiato allo Strega Giovani hanno infatti tra i 16 e i 18 anni. Come guardi al ragazzino che eri? Non è esagerata questa sete di significato? Non sono domande ingenue, oppure un po’ religiose, come gli dicono i medici?

 

Sebbene io abbia tentato di rifuggirle, ho scoperto che in realtà la mia vita da sempre insegue queste domande.

 

Quando mi guardo, anche se dentro a un corpo un po’ invecchiato, vedo una meravigliosa continuità tra quel ragazzino e l’uomo che sono diventato. Vedo dentro di me ancora agire una spinta verso il significato, e per fortuna via via più consapevole, con tante amicizie in più attorno.

 

I miei romanzi esistono proprio per questo: ho voluto andare a riprendermi l’adolescente, andare a riprendere integralmente quelle domande che sono fondamentali per la mia vita. Sono domande che posso tradire, ma quando l’ho fatto non ho provocato altro che dolore in me.

 

Sarebbe come allontanarmi da ciò che nella mia vita è sempre valso più di tutto, qualcosa che è indivisibile dall’amore. Quando smetto di vivere queste domande fondamentali non riesco ad amare pienamente, non amo totalmente.

 

Sono nato per questo: per aderire a questo istinto al significato. Questa parte della mia vita infatti è quella più realizzata, non quella meno sofferente o addomesticata, anzi.

 

Daniele Mencarelli © Guido Fuà

 

Quello che chiami “istinto al significato” nel libro è anche definito “impulso feroce” a volere sempre di più. Una vita senza misura, che ha anche il suo lato drammatico: Daniele ha seri problemi di tossicodipendenza. È di questi giorni la notizia della morte per overdose dei due giovanissimi ragazzi di Terni – 15 e 16 anni, ndr. Di fronte a fatti come questi qualcuno potrebbe pensare che certi desideri eccessivi siano pericolosi
Quando si entra in contatto con le sostanze, i motivi che precedono quell’incontro vengono esasperati. Io non so cosa abbia spinto quei due ragazzini a fare questa esperienza, a voler prendere il metadone. Non lo so. Spesso a quell’età agisce in maniera terribile la curiosità, una spinta ludica verso la sostanza. Io non posso parlare per loro, né mi azzarderei a farlo.

 

Chi entra nel mondo delle sostanze lo fa con premesse esistenziali, psicologiche, educative ogni volta diverse, e perciò ogni caso è un unicum, una storia unicamente di ciascuno.

 

Io parlo per me, a partire da quello che mi è successo. Quello che uno trova dentro le sostanze – e credo che questo unisca le diverse esperienze – è un ottundimento.

 

È come se la sostanza rendesse meno faticoso l’atto della vita, ammorbidendo tutti i motivi più disparati che portano fin lì: c’è chi ci arriva perché fugge da una famiglia che può essere l’inferno – e non fu il mio caso. Io sono stato salvato dalla mia famiglia.

 

Io fuggivo da una mole di interrogativi insopportabile a quell’età, e la sostanza addomesticava questi interrogativi. Paradossalmente per chi vive dentro di sé una dismisura – di domande, di dolore –  la sostanza inizialmente funge da misura, da mediazione.

 

Il rischio poi però è di morire a causa di quella mediazione: è una medicina distorta che non ti farà morire della dismisura che è in te, ma per la falsa misura che ti offre.

 

Entriamo dentro ai sette giorni di TSO. Daniele si accorge subito di quanto la paura e la diffidenza reciproca dominino nelle relazioni, specialmente tra infermieri e pazienti. Tuttavia, nel corso della storia, su nessun personaggio sembra mai potersi dire l’ultima parola. In ognuno c’è sempre qualcosa da scoprire. Daniele è combattuto tra affezione e disillusione, amore e paura di sentirsi tradito. Che cosa può modificare una convivenza fondata sulla paura reciproca?

 

Per me una convivenza fondata sulla paura è una specie di ossimoro, sono due termini che si annullano a vicenda. La convivenza vera chiede di sconfiggere la paura, chiede di andare oltre, ed è quello che succede dentro quella stanza di reparto psichiatrico.

 

La prima mossa non viene dal protagonista, ma dagli altri. Viene da uomini molto più grandi di lui che probabilmente vedono un ragazzo più giovane, e cioè qualcuno che da un punto di vista quasi anche ‘animale’ va protetto. Tu devi ancora acquisire gli strumenti per vivere e quindi io, da adulto, ti aiuto.

 

C’è un momento preciso in cui la paura tra lui e gli altri pazienti è abbattuta?
A un certo punto, durante una visita, lo psichiatra di Daniele si addormenta davanti ai suoi occhi, e lui arriva a pensare di sé una cosa terribile: “In fondo anche come caso clinico valgo poco”. Torna nella stanza e gli altri pazienti gli chiedono cosa è successo. Lui racconta di sé, ed è così che la paura è vinta.

 

Quel momento scardina la previsione. Si apre, dice quello che gli è successo, e avviene la meraviglia dell’umanità: a quel ragazzino che è appena stato ferito tutti offrono delle esperienze che si addentellano alla sua. Ciò che si genera in quell’istante è vera amicizia.

 

Lui inizia a scoprire che oltrepassata la paura c’è qualcosa di stupendo, qualcosa di molto più simile a sé di quanto abbia mai immaginato, perché lui questa esperienza con i suoi amici non l’aveva mai fatta prima. Questa è la meraviglia dell’umanità, che accade quando due riescono a superare la paura e si riconoscono. Ed è totalmente autobiografico: io sono uno che di fronte alla grandezza della vita – bella o dolorosa che sia – ha un bisogno straripante degli altri per poterci stare di fronte, non riesco a tenere questa grandezza per me.

 

Daniele in quel momento ha subìto una sconfitta bruciante, chiede aiuto e viene accolto. Nella mia vita è accaduto tante volte, e sono queste offerte di aiuto che sto progressivamente trasformando in narrativa nei miei romanzi.

 

Tutto chiede salvezza è anche una storia di amicizie impreviste e improbabili: quelle con i tuoi compagni di stanza nel reparto psichiatrico. Un maestro di scuola identico a Brian May, un omosessuale che fino all’ultimo non cesserà di compiere le sue avances, e altri ancora. Sono soggetti considerati anormali e pericolosi, eppure di loro tu scrivi: “Quei pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato”. Cosa avevano quei 5 ‘matti’ che non avevi trovato altrove?

 

L’amicizia reale scatta quando non mettiamo in mezzo tra noi e l’altro diaframmi, filtri, reticenze, quando non obbediamo a tabù: è questo il primato che mi offrono questi pazienti, e lo fanno su una base assolutamente concreta.

 

Perché questa meraviglia succede solo quando non si resta su un piano teorico del vivere. Nasce sempre dall’esperienza comune che uno si ritrova a vivere con l’altro essere umano.

 

È come se l’uomo avesse bisogno di ingredienti immancabili per legarsi veramente all’altro, e l’ingrediente più immancabile di tutti è la realtà.

 

Mi spiego. Tra Daniele e gli altri pazienti il riconoscimento reciproco, il riconoscimento di una natura profonda che è uguale nell’uno e nell’altro, avviene grazie a un episodio concreto: la delusione davanti al dottore che si era addormentato, e addormentandosi era come se gli avesse detto “tu vali poco”.

 

Daniele Mencarelli © Guido Fuà

 

È in questi rapporti che Daniele inaspettatamente guadagna se stesso
Sì, e si tratta dell’esperienza più sublime. Dirò una cosa che per pudore non dico mai. Da secoli pare che per mostrarti colto e alla moda tu debba sempre dire che è stupendo incontrare chi è diametralmente opposto e diverso da te. E io lo condivido, a me piace tantissimo incontrare persone che hanno esperienze diverse dalla mia.

 

Ma non va dimenticata una cosa: noi ci sentiamo riconosciuti e accolti quando sentiamo che nell’altro c’è una parte ancora più concreta di quello che nemmeno noi sapevamo di noi stessi. È questo che fa scattare l’amicizia, ed è ciò che è accaduto a me con quei cinque compagni di viaggio.

 

Da anni ho la fortuna di vivere amicizie nelle quali avviene questo riconoscimento dentro all’altro di ciò che sento come la parte più vera di me.

Incontrare quei cinque malati psichiatrici significò anche incontrare le loro storie drammatiche. È per questo che il tuo è un libro scomodo, perché sbatte in faccia a tutti proprio quelle cose di cui non si vuole mai parlare: il dolore, l’imperfezione, la malattia, l’incapacità di amare sé e chi non è ‘a norma’.  Perché credi sia importante non nascondere questo lato indigesto di sé e della realtà? Non sarebbe più facile chiudere gli occhi? Anche Daniele a un certo punto supplica i sonniferi…

 

C’è sempre stata in me quella che potrei chiamare un’incapacità all’occultamento sociale, un’incapacità a non guardare.

 

Le esperienze mi hanno sempre colpito con una tale forza che non ero in grado di obbedire al gioco di nascondere e passare oltre. Oggi questo è diventato invece per me un bisogno, una volontà: quella incapacità è diventata, se vuoi, un modo di vivere.

 

È una parte di me che per un certo periodo sono riuscito a nascondere, e per molti anni ho obbedito al dogma borghese per il quale dobbiamo offrire di noi una declinazione sempre vincente, risolta, piana. Ma ciò significava tradire tutto ciò che per me aveva valore. Per questo mi sono andato a riprendere come adolescente, per tornare a una vita che offrisse tutto di me.

 

Mentre declina la pandemia e ci si prepara a un duro periodo di crisi economica in Italia si torna a chiedere sicurezza, protezione, lavoro. Daniele invece dal Tso chiede ‘salvezza’. Hai scomodato una parola antica, e che non si sente mai pronunciare. Perché ‘salvezza’? E qual è il pericolo da cui dovremmo essere salvati?
Oggi si usa ‘salute’, che ha la stessa radice. Abbiamo sentito spesso minacciata la nostra salute nel corso della pandemia, rispetto alla quale stiamo vivendo ora una fase di ritorno alla normalità, in cui esplodono le grandi interrogazioni sociali: lavoro, sicurezza, occupazione. Io credo che però nel momento in cui la pandemia era più devastante, soprattutto al Nord, alcuni abbiano potuto sentire dentro a certe parole riverberare altri significati, come se le parole avessero un doppio fondo.

 

Il termine ‘salute’ a un certo punto non bastava più, e qualcuno può aver colto un altro rimando, a una parola ‘sorella’ di ‘salute’, ‘salvezza’. La salvezza è qualcosa che sta oltre alla salute.

 

Permettimi di dire una cosa a questo proposito. In questi mesi ho incontrato molti che vivono il termine salvezza a una sola dimensione, che direi orizzontale: salvezza intesa come sopravvivenza fisica e come soluzione di tutti i problemi materiali che ci sono nel mondo. E anche la mia salvezza è innanzitutto questo, orizzontale: non dimentica le ingiustizie sociali e tutto il male che l’uomo produce sugli altri uomini. Basta pensare che viviamo a pochi chilometri da dei veri e propri lager in Libia, e lo sappiamo tutti.

 

Ma a un certo punto avviene in me una ribellione, perché neanche questa giustizia sociale può bastarmi più. La salvezza di cui parlo io vorrebbe investire tutto il mondo e risolvere tutti i guasti che abbiamo prodotto, ma poi, in assoluta continuità, acquista una dimensione altra rispetto al mondo, verticale, è di più, è oltre.

 

È una salvezza da questo mondo.

 

È come se la soluzione di tutti i problemi, anche dei peggiori, non fosse ancora quello che cerchiamo?
Esatto.

 

Io riconosco nel mondo un elemento di imperfezione costante, inevitabile, ma non per questo mi accontento di un mondo dove prevale l’ingiustizia.

 

Vedo bene che ci vengono raccontate tante favole per nasconderci che manca la volontà politica di risolvere i problemi, come quello delle migrazioni dall’Africa. Questo è sempre più chiaro a tutti e su questo punto mi sto ritrovando anche con persone che vengono da esperienze culturali e umane molto diverse dalla mia.

 

Detto questo, io sento dentro di me un’imperfezione che nessuna soluzione dei problemi del mondo sanerà, per questo occorre una salvezza che è oltre questo mondo.

 

Questo bisogno di salvezza di cui parli a un certo punto nel libro è definito come malattia, una forma di follia. Perché invece per te non lo è?
Io credo che l’uomo nell’ultimo secolo e mezzo abbia perso sempre più dimestichezza con dei linguaggi che erano assolutamente fondamentali per comprendere se stesso. Sono le lingue delle religioni, della filosofia, della poesia, linguaggi che oggi sono tramontati, o vivono una profonda crisi.

 

Questi linguaggi servivano all’uomo per parlare di certi temi che oggi pensiamo di non vivere più: la morte, il limite, la perdita – un tema per me assolutamente fondativo. Tutte queste cose in realtà continuano a vivere dentro di noi, ma siamo noi che abbiamo perso sempre più contatto con noi stessi.

 

Sono divenuti dominanti nuovi linguaggi, quello dell’industrializzazione e della tecno-scienza, e in parte questa è una fortuna indiscutibile: se io avessi fatto certe cose che ho combinato da ragazzo non negli anni ’90 ma negli anni ’50 probabilmente sarei finito in manicomio, e i manicomi erano molto peggio delle galere. Io sono grato di essere un figlio del progresso. Credo però che l’uomo, a prescindere dalla sua consapevolezza, abbia dentro di sé una natura, intrecciata a quei temi di cui non si parla più.

 

Oggi assistiamo a un’esplosione della nevrotizzazione nella società proprio perché non siamo più in grado di guardare certe questioni, che pure vivono in noi, e questa deriva sarà sempre più feroce. Una medicina che aspiri a curare senza tenere conto a 360 gradi dell’uomo, senza dialogare con quei linguaggi, rischia di diventare il nostro carnefice, e non è una prospettiva così distopica.

 

I medici, per gran parte del libro, non fanno una bellissima figura…

 

Il tema, di nuovo, è questa offerta reciproca di sé che fa scattare il meccanismo meraviglioso della relazione, dell’amicizia. Purtroppo abbiamo costruito luoghi che hanno come premessa di fondo il fatto di non far scattare questa relazione. E per paradosso sono proprio i luoghi della cura, i luoghi della redenzione, e mi riferisco pure ai carceri.

 

Sono quei luoghi che dovrebbero ri-alfabetizzare rispetto a una possibilità umana, ma che invece, come accade nel romanzo, diventano gironi infernali. E in un girone infernale le gerarchie saltano, che tu sia medico o paziente, siete tutti lì da condannati, da persi. Questo accade perché esistono luoghi che, anche per un’assenza di bellezza, rendono tutti uguali, ma in una chiave assolutamente negativa.

 

Daniele Mencarelli © Guido Fuà

 

Ciò che hai vissuto in quei sette giorni di Tso è stato per te fondamentale, la tappa di un percorso che continua ancora oggi. Qualcuno, leggendo la tua storia, potrebbe dire: “Che bravo, si è proprio tirato su! Dal Tso allo Strega”. Ma è solo questo? Ti sei ‘tirato su’?
Non mi sono tirato su, non mi sono sconfitto né superato. Io ho semplicemente aderito a quello che sono e vivo ogni momento e ogni incontro come un’occasione straordinaria per lavorare assieme sui temi che da sempre mi abitano e che io abito.

 

È l’opposto del superamento, è un totale, meraviglioso abbandono dentro questa natura.

 

Foto di copertina courtesy of Daniele Mencarelli

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