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Al passo dei giganti

Dalla NBA all’Europa, Ettore Messina ha imparato dai migliori e, soprattutto, da tutti i suoi giocatori: per essere un grande coach bisogna essere un grande leader.

di Giulia Arturi

Ettore Messina, 61 anni, è l’allenatore dell’Olimpia Armani Exchange Milano, squadra di pallacanestro del capoluogo lombardo, la più titolata d’Italia. È tra i migliori coach in attività: l’elenco dei suoi successi non è breve, basti ricordare le quattro vittorie in Eurolega per farsi un’idea. In Italia è diventato grande alla Virtus Bologna, ha poi guidato la Nazionale, è stato a Treviso, Mosca, Madrid. Nella sua carriera c’è anche l’Nba, una stagione a Los Angeles come assistente dei Lakers e dal 2015 al 2019 assistente del leggendario Gregg Popovich a San Antonio. Da oltre 30 anni insomma si misura al più alto livello della pallacanestro mondiale. Al di là dell’aspetto tecnico, sul piano culturale, Messina è di certo un punto di riferimento dello sport italiano, un “saggio” ascoltato come Julio Velasco e Mauro Berruto.

Quello che colpisce di Messina è la capacità di ascolto, l’equilibrio e la compiutezza delle sue riflessioni. Che non mancano però di passione: basta guardarlo allenare per capire quanto ama quello che fa. In lui emerge una professionalità che non sempre si riscontra in tanti presunti leader. Tomas Chamorro-Premuzic, professore di Business Psychology all’University College di Londra e alla Columbia University ha scritto un libro proprio sul tema: “Perché tanti uomini incompetenti diventano leader”. Oltre a profilare cosa non funziona (il narcisismo in primis), indica anche che i buoni leader devono essere provvisti del cosiddetto capitale intellettuale: preparazione nel campo specifico, esperienza, capacità di giudizio. Proprio come Ettore. La sua squadra riflette il suo modo di vedere la pallacanestro e forse il mondo: è composta da gente di estro e di rare capacità, ma consapevoli che il talento egoista è controproducente: atleti generosi e professionali. Sembrano principi apparentemente ovvi, ma guardandosi intorno si realizza come vengano spesso sottovalutati.

 

© Olimpia Milano

 

L’Armani è una squadra costruita per arrivare in fondo in tutte le competizioni. In questo momento difficile, come cambia l’approccio ad una stagione con degli obiettivi così importanti ma senza le solite certezze?
Cambia nella gestione della quotidianità per l’impossibilità di programmare anche a medio termine; arriva un momento, quando meno te lo aspetti, magari con la squadra che sta andando bene, che ti trovi a dover rinunciare a giocatori che si sono contagiati. Serve quindi una flessibilità enorme. Un’altra cosa importante è cercare di fare fronte comune. In questo momento la squadra non ha nessun tipo di sistema esterno: i tifosi e la comunità che gli ruotano solitamente intorno sono elementi oggi percepiti molto lontani. Di conseguenza, le squadre che hanno più coesione interna e sviluppano capacità di fare gruppo sono quelle che poi avranno le migliori possibilità per uscire da un momento come questo.

Abituati a palazzetti pieni, come si sopravvive mentalmente a giocare senza pubblico, nel silenzio più totale?
È come subire una piccola anestesia. È un po’ come tornare ai tempi delle giovanili: senti la voce del tuo allenatore, dei compagni, del coach avversario. Dopo che la palla viene alzata, ho visto che comunque tutti riescono ad essere totalmente dentro alla partita; è più che altro il momento della preparazione ad essere insolito. È anche vero che, come è stato per la bolla dell’Nba, l’assenza di pubblico appiattisce i valori: il fattore campo non esiste più. Gli arbitri possono offrire una qualità maggiore, probabilmente meno condizionati dall’ambiente. E anche il gioco, paradossalmente, cosa già sperimentata in Nba, a livello di percentuali di tiro e di statistiche, potrebbe giovarsi di un miglioramento, nonostante la situazione inusuale.

Julio Velasco ha dichiarato che “lo sport può essere fonte d’ispirazione in questo periodo di pandemia”: è d’accordo? In che senso?
Assolutamente sì, e può anche essere una compagnia. Infatti, ritengo importante quello che stanno sperimentando le varie televisioni nel cercare di offrire qualche possibilità in più di vivere lo sport da vicino. Probabilmente dovremmo anche pensare a qualche nuova modalità per far partecipare il pubblico: l’accesso agli spogliatoi, uno sguardo ai momenti più ‘intimi’ delle squadre. Il valore dell’investimento televisivo va direttamente o indirettamente a sostegno delle squadre.

 

© Olimpia Milano

 

Lo sport è anche un sollievo dall’ansia.
Certamente: inoltre trasmette un senso di continuità, che non tutto è provvisorio; ci dà la possibilità di pensare a qualche settimana più in là. Da questo punto di vista è fondamentale riconoscere il valore dei campionati nazionali. Le varie leghe internazionali, nel mio caso l’Eurolega, stanno soffrendo moltissimo per il rinvio di molte partite. Al punto che probabilmente bisognerà chiedersi se non sarà il caso di ridurre il numero degli incontri, per poter sperare nei mesi a venire di riuscire a concludere la stagione. I campionati nazionali secondo me hanno un ruolo importante, è forse quasi più sperabile portare a termine la lega nazionale che non quella europea.

Giorgio Armani, 84 anni, è sempre in prima fila in campo e a favore della collettività. Lei guida la sua squadra, lo conosce molto bene. Può raccontarci che tipo di leader è? Sembra avere le idee molto chiare.
La cosa che colpisce del signor Armani è proprio la capacità di vedere lontano, di capire quali aggiustamenti devono essere fatti a breve termine per mantenere sane e integre nel lungo periodo tutte le sue attività: che siano lo sport, le creazioni di moda, o altri interessi, ad esempio il sincero affetto e la vicinanza che ha dimostrato nei confronti degli operatori sanitari durante l’emergenza. Una straordinaria capacità di proiettarsi al futuro e di capire come le cose possano essere fatte meglio per la comunità.

Cosa ha imparato dai suoi atleti nel corso della carriera?
Tantissimo. Non sono arrivato ad alto livello, anzi ho proprio giocato pochissimo, ho smesso a 17 anni. Il dispiacere di non aver potuto essere un giocatore mi è rimasto, nel senso che mi è mancata la condivisione per lunghi tempi di uno spogliatoio. Mi manca la capacità di capire cosa vive e pensa un grande giocatore che siede accanto a te prima di una finale. Mi mancano i discorsi del gruppo in un momento difficile della stagione, oppure dopo una vittoria.

 

Tutto questo l’ho vissuto dall’esterno: l’allenatore deve rispettare lo spogliatoio nella sua privacy, lasciando i giocatori tranquilli di essere sé stessi. Quindi ho guardato, studiato, cercato di carpire il più possibile da quelli che ho avuto, indipendentemente dal loro talento.

 

E dai grandi campioni ho imparato in particolare come si preparano e come esercitano la loro leadership. È stata una continua ricerca nel tentativo di arrivare il più possibile vicino a loro. Anche dal punto di vista tecnico, molte volte, è il giocatore a darti un’idea: tra due opzioni è meglio scegliere quella con cui chi gioca si sente più a suo agio; in campo ci sono loro non chi disegna a tavolino. 

 

© Luis Antonio Rojas / Panos Pictures / LUZ

 

Lei è uno dei più grandi allenatori al mondo, e per tanti anni ha condiviso la panchina come viceallenatore. È stata un’esperienza positiva?
Molto. Quanto ho appena detto rispetto al mio vissuto con i giocatori, vale anche per i cinque anni in cui sono stato assistente di Gregg Popovich.  Ho avuto la possibilità di guardarlo lavorare, relazionarsi con i giocatori, gli arbitri, tutto l’ambiente. Di osservare da vicino la sua leadership nei confronti non solo della sua squadra, ma di tutta la società, della comunità in cui vive, dell’Nba. È stata un’avventura bellissima e resa ancora più speciale dalla presenza dei tre grandi campioni: Ginobili, Parker e Duncan. Nessun trio di giocatori ha vinto più partite di loro nella Nba. Poter lavorare a fianco di un grande allenatore, insieme a tre artisti della pallacanestro, studiare le loro interazioni non solo tecniche, ma soprattutto umane, ha rappresentato un’esperienza gratificante sotto tutti i punti di vista.

Gregg Popovich è sempre molto impegnato nel sociale, e come lui tantissimi atleti e allenatori prendono parte al dibattito politico. Che cosa non percepiamo di quella società e di come vivono i giocatori i problemi sociali?
In America, i giocatori Nba, ma anche di altri sport professionistici, parlano sempre di quanto sia irrinunciabile la piattaforma che hanno a disposizione, da cui possono veicolare messaggi significativi. È una presa di coscienza e di responsabilità ed è un motore importante. Ma non è scontato.

 

La famosa frase rivolta a LeBron James da parte di una giornalista ‘shut up and dribble’ (zitto e palleggia) è la dimostrazione di una convinzione che non è stata ancora superata: i campioni dovrebbero limitarsi a giocare e non permettersi di inserirsi in altre questioni.

 

Così come tuttora, a livello di Comitato Olimpico internazionale, lo sport è totalmente fuori dalla politica. Ci dimentichiamo però che qualsiasi nostro gesto, qualsiasi scelta ha in realtà un valore politico; loro sono stati i primi a riconoscerlo.

 

© Mauricio Bustamante / Visum / LUZ

 

Ogni tanto mi sembra che lo sport non abbia in Italia la considerazione culturale e sociale che merita.
Assolutamente. Manca l’attenzione all’attività di base e allo sport non professionistico. E la consapevolezza che lo sport non professionistico può comunque essere di vertice. La serie C di calcio, la A1 femminile di basket solo per fare alcuni esempi; parliamo di un impegno enorme, non solo economico, ma di ore di allenamento. La ricerca della professionalità nella propria attività non è solo legata allo stipendio percepito, e se c’è uno stipendio. Si è grandi professionisti giocando in una serie minore nel momento in cui gli allenamenti sono svolti al massimo dell’impegno e della cura dei particolari.

 

Viviamo in una società dove l’educazione fisica è ancora considerata come qualcosa di secondario a qualsiasi altra materia. Coltivare una cultura sportiva fin dalla scuola elementare significa formare dei cittadini migliori che contribuiranno ad una società più rispettosa dei valori, dove si parla meno e si fa di più.

 

Negli ultimi mesi, stiamo giocando una partita difficile, contro un virus che non ci lascia neanche il tempo di ragionare. Dobbiamo rimontare uno svantaggio ma sembriamo una squadra disunita, che pensa più ad accusare il compagno di un errore che trovare un modo di metterci una pezza.

 

Soprattutto facciamo fatica ad ascoltare l’allenatore. Oppure facciamo fatica anche a capire chi è l’allenatore.

 

Nel suo percorso c’è anche una laurea in Economia. Cosa si è portato dietro nella carriera di allenatore dell’essere studente?
Mi è molto servito frequentare l’università e riuscire a portare a termine il percorso di studi; è stata innanzitutto una piccola sfida vinta. Man mano che andavo avanti già allenavo e a livelli abbastanza alti. Ero il responsabile del settore giovanile a Mestre, poi durante l’ultimo anno ero a Bologna dove facevo anche l’assistente in A2. Studiavo e in contemporanea portavo avanti la mia carriera. Ho trovato la possibilità di migliorare le mie conoscenze, di costruire un piccolo metodo di organizzazione, che mi ha aiutato poi a costruirne un altro per quello che faccio in campo.

Giovane allenatore prodigio, poi tecnico maturo e affermato, ora punto di riferimento di un ambiente intero: come si è adeguato?
Quando ho iniziato ad allenare in serie A avevo 29 anni. Sicuramente con il passare degli anni si cerca di andare più a fondo nelle cose, provando a uscire dal minimalismo della palla che va dentro o fuori. L’esperienza e gli esempi degli altri sono utili. Anche da questo punto di vista la possibilità di vedere dal vivo Popovich tutti i giorni è stata notevole. Ha una capacità di comunicare, sia quando vuole essere provocatorio, sia quando vuole essere costruttivo e aggregante, che fa molto riflettere. Soprattutto sa mettere le cose in prospettiva, in un momento in cui a causa dei social media il rapporto tra audience e atleta o allenatore è diventato molto delicato.

 

© Olimpia Milano

 

Ha sempre dichiarato di vivere male le sconfitte: è migliorato questo aspetto nel corso del tempo?
È peggiorato, semmai. Il senso di responsabilità con il passare degli anni non si attenua solo perché il ‘generale Popov’ ha tante medaglie. La gente, o chi ti prende ad allenare, pensa che io possa risolvere tanti problemi. Quindi si fa sempre più fatica ad accettare la sconfitta, un intoppo che in quel momento sembra drammatico.

C’è qualcosa di cui va particolarmente fiero di quanto fatto finora dalla sua squadra?
Più che fiero, perché c’entro poco, sono molto soddisfatto per il gruppo di lavoro che si è creato. Tutti assieme, assistenti, società con Christos Stavropoulos e Alberto Rossini (rispettivamente general manager e team manager, ndr) siamo riusciti, riflettendo molto nei mesi del lockdown, a capire che tipo di persona volevamo provare a portare da noi. Sono orgoglioso di giocatori come Hines, Delaney, Gigi Datome che, dopo il Chacho Rodriguez l’anno scorso, hanno scelto di venire a Milano. È qualcosa che personalmente mi gratifica molto. Non l’hanno fatto per me, ma per il club, per il signor Armani, per la città. Sono contento del modo in cui stiamo facendo le cose. Sono atleti bravi, guadagnano molti soldi, però fanno le cose seriamente, come le farei io.

Si discute molto nel mondo del basket se il tiro da tre punti abbia impoverito il gioco: cosa ne pensa e come si può uscirne?

 

Il tiro da tre ha salvato il gioco perché in una realtà di atleti sempre più spaventosi, il campo stava diventando sempre più piccolo. E il tiro da tre ha permesso di utilizzare più zone del campo, aprendo nuovi spazi. Ha salvato la spettacolarità del gioco.

 

Sul suo abuso però, si apre tutto un altro capitolo. In questo senso, la valutazione analitica che alcune squadre hanno fatto per cui bisogna tirare solo da molto vicino o da tre, forse è una forzatura. Penso alla bellezza e l’utilità del palleggio arresto e tiro, un fondamentale ancora importante, che in Europa è anche molto efficace per vincere le partite.

 

Foto di copertina © Olimpia Milano

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