La saga dell’ispettore Ferraro, le periferie e i pellegrinaggi sulle tangenziali: abbiamo incontrato Gianni Biondillo.
Gianni Biondillo è architetto e scrittore, vive intersecando le sue professionalità in un discorso che mette sempre al suo centro la città – e quindi, attenzione, le persone -. Milanese “tipico”, figlio di una siciliana e di un campano, cresciuto a Quarto Oggiaro, si è trasferito in via Padova quando tutti scappavano dal quartiere e i prezzi delle case crollavano.
Se è diventato famoso al grande pubblico grazie ai gialli dell’ispettore Ferraro – il primo capitolo è Per cosa si uccide, ndr – in realtà sulla carta stampata ha sempre affrontato gli argomenti più svariati. La nostra conversazione, come molti dei suoi libri, ha però avuto una sola, grande protagonista: Milano e i suoi cambiamenti.
Partiamo da Milano, sempre presente nei tuoi libri. Come la guardi quando scrivi? Il tuo “occhio da architetto” ha un peso?
Il mio “occhio da architetto” è determinante: ognuno si porta dietro la sua formazione, che inevitabilmente fa la differenza.
Se sei un medico, un ladro o un cuoco, vivi la città in modo ogni volta differente. Io sono laureato al Politecnico di Milano, in Architettura appunto, e questo ha cambiato inevitabilmente il mio sguardo nei confronti della città.
Ho cominciato scrivendo saggi di architettura – e non ho mai smesso – e ho esercitato per anni la professione.
Adesso non lavori più come architetto?
Non lavoro materialmente più come architetto, però continuo a essere iscritto all’ordine, a pagare le tasse, fare i crediti formativi… forse una parte di me vuole continuare a sentirsi tale. Ed è divertente, perché da quando ero studente di Architettura ho sempre avuto scritto sulla carta di identità, alla voce “professione”: “scrittore”. Invece, da quando ho smesso di esercitare, ho messo: “architetto”.
Mi piace stare in questa sorta di zona anfibia fra le discipline, sempre a cavallo di qualcosa. Sono molto architetto per gli scrittori e molto scrittore per gli architetti: non si capisce cosa sono.
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Torniamo a Milano nei tuoi romanzi
Il racconto dei miei romanzi è sempre un racconto di Milano.
Ad esempio, nella serie dedicata all’ispettore Ferraro, Milano è la vera protagonista, non Ferraro. Con un unico vincolo che mi sono posto fin dal primo romanzo: non citare mai il Duomo.
Non mi ha fatto niente, gli voglio un gran bene, ma nei miei libri non compare. È una scelta quasi ideologica per uscire dai luoghi comuni, dal solito immaginario. Dico: diamo le spalle al Duomo e guardiamo il resto della città, usciamo fuori dal centro storico, andiamo nei quartieri popolari, nelle periferie…
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Parlando di periferie, tu sei cresciuto a Quarto Oggiaro, mentre adesso vivi in via Padova
Sono venuto ad abitare qui una decina di anni fa, dopo una sparatoria. Un sudamericano aveva ucciso un egiziano e improvvisamente, dopo questo fatto, la zona venne considerata dai giornalisti come l’inferno in Terra.
Io, invece, ho detto alla mia famiglia: “È arrivato il momento di trasferirci in via Padova”. I prezzi delle case crollarono, ci fu un fuggi fuggi generale, il terrore per “l’invasione degli extracomunitari”… figurati. È stata la scelta più bella che abbia fatto nella mia vita, non la cambierei mai.
E in più, essendo Milano una città molto dinamica, nel giro di dieci anni senza muovermi da qui ho cambiato quartiere. Ha cominciato a chiamarsi NoLo, è diventato un posto “cool”, e c’è gente che inizia a comprare casa qui: è quella che si chiama tecnicamente gentrificazione. Ma ripeto, quando mi sono trasferito dieci anni fa sembrava l’inferno in terra, dico “sembrava” e mi fa ridere, perché in dieci minuti di metropolitana si è in piazza del Duomo e a piedi in un minuto si arriva in corso Buenos Aires.
Molto lo fa la percezione della gente, il come si racconta questa città, che molto spesso è fatta di luoghi comuni.
Le periferie le hai anche attraversate a piedi
Sì, sempre una decina di anni fa feci un’operazione letteraria un po’ surreale con Michele Monina: il giro delle tangenziali di Milano a piedi – il frutto di queste camminate è Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città, Guanda, 2010, ndr.
Tutti facevano i pellegrinaggi a Santiago di Compostela, noi lo abbiamo fatto intorno alla cintura di Milano.
In seguito ho iniziato a ricevere continuamente inviti a percorrere altre tangenziali, quella di Parma, quella di Bologna, e io dicevo: “Ma chiamate uno scrittore di Parma, o uno scrittore di Bologna!”.
In quel caso il pregiudizio era: tu racconti le periferie e in fondo le periferie sono tutte uguali. Invece no, quello che io cerco di dimostrare è l’esatto contrario: la Barona non è Quarto Oggiaro, Crescenzago non è Baggio.
Ognuno di questi luoghi ha una storia, una memoria, un vissuto, e sono tutti diversi. Hanno dei punti in comune, sono magari nati come quartieri operai, ma quella roba ormai non esiste più, le fabbriche non esistono più, la classe operaia è andata in pensione – non in paradiso -, la nebbia è sparita…
Insomma, il luogo comune della Milano anni Sessanta è cambiato, quella città in bianco e nero con la nebbia è diventata una città a colori.
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
C’è stato anche un cambiamento sociale
C’è stato un cambiamento antropologico: sono cambiate le facce, sono cambiati gli odori per strada, il che è nella natura di questa città. Il cambiamento è la più antica tradizione di Milano. Fin dal Medioevo, più della metà degli abitanti di Milano non è nata in città. Io faccio Biondillo di cognome, non Cazzaniga o Brambilla, sono il classico milanese figlio di una siciliana e di un campano: cosa c’è di più tipico di Gianni Biondillo? Niente. E io sono profondamente e intimamente milanese, nonostante sia cresciuto in un quartiere in cui tutti parlavano pugliese, calabrese, o veneto. E oggi, invece, chi mi circonda parla spagnolo, cinese, o arabo. Ed è normale. È la cosa più tipica di Milano.
E poi c’è stato un altro cambiamento, che ha portato a quella che hai chiamato “gentrificazione”
Milano si è data una specie di appuntamento, l’ha chiamato Expo 2015 ma era solo un trucco per fare marketing urbano. Nel giro di dieci-quindici anni è cambiato tutto, la città è diventata un’altra città, una sorta di museo dell’architettura contemporanea dove hanno operato alcuni dei più famosi architetti del mondo. Negli anni Novanta il più grande cantiere d’Europa era Berlino, negli anni Duemila è stato Milano.
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
L’architettura ha avuto un forte ruolo sociale nell’evoluzione di Milano
Milano non dovrebbe andare orgogliosa di Brera o del Castello Sforzesco, dovrebbe andare orgogliosa delle case popolari che ha costruito in via Solari e in viale Lombardia agli inizi del Novecento. Doveva dare una risposta a una domanda impellente, e lo ha fatto.
Il comune di Milano, comunque, possiede ancora un gran numero di proprietà, oltre a quelle dell’Aler, che sono molte di più e sono di competenza della Regione – e l’Aler ha un atteggiamento disastroso nella gestione del suo patrimonio, le case sono in condizioni penose dal punto di vista della manutenzione.
Questa città che costruisce grattacieli, boschi verticali, fondazioni e cose fighissime, allo stesso tempo è anche una città che ha smesso di costruire case per gli strati popolari meno abbienti, e anche di rivalutare e riqualificare il patrimonio edilizio che già possiede.
Questo e la qualità dell’aria – quindi un problema ecologico – sono i nervi scoperti di Milano. Stiamo dando troppa attenzione a chi ce la fa, e sempre meno a chi non ce la fa. Milano è una città che ha sempre detto: “O ci muoviamo tutti insieme o perdiamo tutti insieme”, se perde questa sua natura perde tutto.
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Nel 2012, in un intervento a Palazzo Lombardia, dicevi che sulla differenza tra spazio pubblico e spazio privato si sta giocando l’Italia
Questo è un problema che non è solo di Milano, ma dell’Occidente. Noi – da intendersi come “cultura mediterranea” – siamo gli inventori della piazza: abbiamo inventato uno spazio pubblico dove tutti si sentono co-partecipanti della collettività e che appartiene sia al marchese sia allo straccione. Oggi invece seguiamo il modello degli Stati Uniti, quello degli spazi collettivi ma privati.
Il “modello centro commerciale”
Il problema del centro commerciale non è che sia brutto o bello, Renzo Piano ne ha fatto per esempio uno molto bello a Nola, in provincia di Napoli. Il problema è che quegli spazi collettivi non sono pubblici: fingono di essere delle piazze ma appartengono a qualcuno.
Se la piazza è il luogo dove la collettività si auto-rappresenta darà il meglio di sé, e infatti le piazze italiane sono magnifiche, perché sono la dimostrazione della grandezza della civitas. Se invece i luoghi appartengono a qualcuno, quel qualcuno si rappresenta un po’ come vuole.
Ma soprattutto quei luoghi fingono di essere collettivi ma restano privati: per il capitalismo avanzato tutto ciò che è pubblico non esiste, quindi viene abbandonato, dimenticato, dismesso. È questo il grosso problema. Noi dobbiamo riappropriarci degli spazi pubblici, non accettare le lusinghe degli spazi collettivi privati. Ecco, sono passato dall’architettura alla politica…
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Allora restiamo sulla politica: ricollegandoci a Tangenziali, il camminare può avere un significato politico
Assolutamente sì, quella che abbiamo fatto con Tangenziali è stata una scelta politica, e da dieci anni sto portando avanti, con amici, un progetto che si chiama Sentieri Metropolitani, che interpreta la metropoli e le sue trasformazioni attraverso il cammino. Io per anni ho insegnato all’università di Mendrisio “Psicogeografia e Narrazione del territorio”: c’è una lunga storia filosofica e artistica che fa del cammino una performance, dagli psicogeografi, da Guy Debord, fino a passare a Iain Sinclair, e a grandi testi sulla storia del camminare come quelli di Rebecca Solnit.
L’urbanistica si fa a piedi, si cammina e si comprende quali sono le forze e i problemi di un territorio. Ed è un gesto politico fortissimo.
Nel 2015 abbiamo fatto una traversata della città da piazza del Duomo a Expo, e arrivati ai cancelli ce ne siamo andati senza entrare. Un’altra volta abbiamo progettato quella che abbiamo chiamato “Maratown”: siamo partiti da Niguarda e, come fosse un grande orologio, abbiamo attraversato Milano per ventiquattro ore tornando esattamente al punto di partenza senza mai passare dal centro. Come dicevo prima: c’è un’altra città oltre a quella dei luoghi comuni. E poi c’è anche la questione della mobilità lenta: una città troppo veloce e troppo legata alla mobilità privata è una città che inquina e che perde di qualità.
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Anche questo, però, non è un problema solo di Milano
È un problema dell’Italia e del mondo occidentale in generale, io però opero e lavoro qui. Anche se in realtà in questo momento con Sentieri metropolitani stiamo lavorando a un progetto internazionale, un bando europeo che coinvolge camminatori di varie metropoli. La riscoperta del territorio e la creazione di una comunità attraverso il cammino è un processo lungo e complesso al quale io credo molto. E poi è una narrazione: io sono un narratore e, attraversandola a piedi, la città mi racconta qualcosa.
Parlando di narrazione, come dicevi, i gialli di Ferraro sono solo una parte della tua produzione ma sono i libri per cui sei più conosciuto. Perché il giallo piace così tanto?
È una domanda da un milione di dollari. Va anche a momenti: negli anni Sessanta la fantascienza sembrava la letteratura inevitabile, e adesso non la scrive quasi più nessuno. Il romanzo rosa, il fantasy… ci sono certi generi che prendono improvvisamente spazio e inglobano tutto. Il che è un grosso peccato.
Io sono molto critico nei confronti della letteratura “di genere”: credo nell’esistenza di libri scritti bene, se poi siano verdi, gialli, rossi o blu non mi interessa.
Esistono grandissimi scrittori di gialli nella tradizione, e ancora oggi ce ne sono, però quando erano in pochi li riuscivi a riconoscere nel mare magnum di quello che veniva pubblicato, oggi sono talmente tanti che uccidono la bibliodiversità e non è immediatamente riconoscibile chi è veramente bravo e chi no.
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Quale può essere un segno distintivo?
La qualità della scrittura. E poi la complessità della trama e l’approfondimento del contesto.
La specificità del giallo italiano sta nello sguardo sociale, che manca in buona parte degli autori americani o anglosassoni.
Detto ciò, il giallo ha un successo globale perché nei grandi momenti di trasformazione c’è bisogno di una forma per esprimere il malumore, la frizione, il dolore, e il giallo esprime tutto questo restando però consolatorio: alla fine il bene trionfa sempre sul male.
Si cerca qualcuno che indaghi, che rimetta le cose a posto, che di fronte a un’assenza, un dolore, cerchi di ridare senso al caos. Nel noir, invece, non è così: il male potrebbe trionfare sul bene.
Il noir è più inquieto perché sa che in realtà il mondo è caotico.
Prima abbiamo parlato del tuo “occhio da architetto”: ha un peso questa tua formazione nella costruzione di un testo?
Sì, credo che le discipline – chiamiamole artistiche – non siano a compartimenti stagni. Dire che non comunicano tra di loro è una bugia. Quando mi chiedono: “Ma com’è che un architetto si mette a scrivere libri?” Rispondo che la maggior parte di quelli che scrivono fanno altri mestieri: uno è magistrato, l’altro biochimico, quell’altro insegnante. Non è così strano, e ognuno porta la sua storia, il suo vissuto, all’interno di quello che sta scrivendo. E quindi anche io inevitabilmente lo porto all’interno dei miei romanzi.
Costruisco spesso i miei romanzi come un’architettura, se è quello che mi stai chiedendo, ma so che lo fanno anche gli scrittori che architetti non sono: le analogie fra narrazione e architettura sono molto più presenti di quanto si creda. Il tema del tempo, del percorrere uno spazio, esistono sia nell’architettura sia nella narrazione.
Gianni Biondillo © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Che narrazione ha adesso Milano?
Da una parte è diventata una città più seducente, più attrattiva. Il suo picco di abitanti, che era stato un milione e settecentomila, lo aveva raggiunto negli anni Settanta, mentre tra gli Ottanta e i Novanta erano andate via 600.000 persone. Adesso la tendenza si è invertita e la città è risalita a un milione e quattrocentomila abitanti: nel giro di dieci anni sono aumentati di duecentomila unità!
In più Milano sta drenando cervelli da tutta l’Italia – e questo, però, è anche un problema. Sta diventando una città più ricca e stanno aumentando le frizioni con quei luoghi di marginalità dove ci si sente più abbandonati.
Quelli che banalmente vengono chiamati “periferia” e che sono le parti più fragili della città. Il Novecento è stato il secolo che ha definito Milano come città operaia, ma all’incirca dalla seconda metà degli anni Ottanta si è smesso di costruire case popolari. Milano ha molti spazi a disposizione, molte case vuote, ma non ha case per gli strati popolari.
Milano, in questo momento, esiste in una grande contraddizione: quella di una città estremamente dinamica, fatta di cambiamento continuo, accoglienza, e allo stesso tempo frizioni con gli strati popolari e con le nuove immigrazioni. E poi non bisogna perdere di vista una cosa: stiamo diventando antipatici.
In che senso?
Sta andando troppo bene. Con tangentopoli Milano ha preso una mazzata clamorosa e si è chiusa in se stessa, è diventata una città malinconica, da cui tutti scappavano, triste, grigia. Ci siamo rimessi in moto, abbiamo tirato su le maniche anche facendo un po’ gli sboroni: una cosa tipicamente milanese.
Adesso Milano è prima nella classifica della qualità della vita in Italia, e c’è questo, e c’è quello, e ci sono le banche…e basta! Il resto d’Italia inizia a vederci con una certa antipatia.
Il primo della classe è antipatico, non c’è niente da fare. E se continueremo con una rappresentazione di questa città battendo ancora questo chiodo diventeremo ancora più antipatici.