Chi si adatta sopravvive: come stanno cambiando le metropoli e gli spazi urbani ai tempi della pandemia. L’intervista a Ila Bêka, co-regista di Homo Urbanus.
La città, come oggetto, luogo e concetto, ha questo strano destino di oscillare costantemente tra l’essere soluzione e l’essere problema. L’ultimo swing è quello nel quale ci troviamo oggi: veniamo da anni in cui le metropoli sono state fronte avanzato e laboratorio del presente, supplenti dello «Stato pigro» in quanto a capacità di inventiva e resilienza. Sembrava che i sindaci, più che i capi di governo, fossero gli unici in grado di mitigare il cambiamento climatico. Poi è arrivata la pandemia, che ha messo in crisi tutto quello che le città rappresentano: contatto, mescolanza, assembramento. Homo Urbanus, la serie di film di Bêka & Lemoine, è uno strumento utile per decifrare la crisi, decostruire sia l’idealizzazione della città come avanguardia sia la costruzione della città come residuo da smantellare.
Bêka & Lemoine sono Ila Bêka e Louise Lemoine. Sono una coppia di registi che abitano uno spazio inedito tra cinema, documentario, video arte, architettura. I loro lavori sono proiettati ai festival ma sono anche nella collezione permanente del MoMA. Homo Urbanus è una collezione di dieci film dedicati a dieci città diverse: Napoli, Rabat, Bogotà, Seul, San Pietroburgo, Tokyo, Venezia, Doha, Shanghai e Kyoto. Sono esplorazioni libere, a tratti triviali e a tratti estatiche, a volte sembrano frammenti di film di Malick, altre pezzi di giornate di Bourdain. Sono senza commento e senza voce narrante. La città è enigma, gli umani che le abitano, vivono e subiscono sono l’unica chiave possibile per entrare nel codice. Ne parliamo con Ila Bêka.
Dove sta vivendo questa nuova fase della pandemia?
A Venezia. La città in questo periodo è una meraviglia, sarebbe straordinario averla sempre così. La conosco bene, è la città dove ho studiato, ma non l’avevo mai vista così, è incredibile. Sono tutti depressi e ne capisco il motivo. Ma in questa forma Venezia sarebbe il posto migliore al mondo, è la città perfetta per il corpo umano.
Per via del contatto con la dimensione acquatica?
Non solo per l’acqua, o per le aperture sull’orizzonte, che pure sono fondamentali. Sono i rapporti di scala a rendere Venezia la città perfetta. Tra la città, gli edifici, le calli, i ponti, è tutto ben proporzionato all’essere umano.
© Homo Urbanus Dohanus / Beka Lemoine
Com’è fatta invece una città non proporzionata?
Prendiamo Parigi. La scala, da Haussmann in poi, è cambiata, ha smesso di essere pensata al livello del singolo umano, è diventata una città concepita per assorbire la folla, non più per l’individuo. La città moderna è costruita così, in rapporto all’automobile e per la folla.
Il corpo umano ne soffre. Al contrario è la folla a soffrire a Venezia, ed è il problema del turismo, perché non ha le giuste dimensioni per accoglierla. Parigi è piena di turisti quanto Venezia, ma a nessuno viene da lamentarsene, perché è a misura di folla, è sulla scala giusta.
Bologna, Firenze, anche Roma sono nate per un rapporto di scala col corpo, ma poi hanno dovuto trasformarsi, entrare forzatamente nella scala dell’automobile, dalla quale Venezia è stata preservata, non è mai entrata nemmeno in quella del cavallo. È rimasta un laboratorio di città a scala umana.
Homo Urbanus nasce anche per questo? Indagare sui rapporti di scala a livello globale?
Homo Urbanus nasce, come tutti i nostri progetti, per indagare sul rapporto tra il corpo e l’architettura. Il nostro primo film, Koolhaas Houselife, nasceva per mettere in discussione la rappresentazione classica dell’architettura, abbiamo seguito per quindici giorni Guadalupe Acedo, la governante di una casa di Koolhaas che è un’icona dell’architettura. Poi abbiamo allargato la scala, verso architetture sempre più grandi. Siamo passati al Barbican di Londra, che è un edificio di 2mila appartamenti, poi a Place de la République a Parigi, filmando cosa avviene nell’arco di una giornata qualsiasi. Il passaggio alla città è venuto naturale. Volevamo studiare i micro-eventi del quotidiano, nei diversi climi, nei diversi tipi di architettura, per vedere come le persone si adattano allo spazio urbano, all’interno di una creazione che è tutta umana, nata per alterare la natura.
© Homo Urbanus Bogotanus / Beka Lemoine
Ogni città, in un certo senso, è una negazione dello spazio in cui originariamente sorge, nasce per domarlo e addomesticarlo.
Non credo che le città nascano per negare. Cercano semplicemente di adattarsi.
La prima identità di una città è il luogo nel quale cui è insediata. Ma l’urbanistica cambia, i sistemi si evolvono, Tokyo si è adattata ai terremoti, ogni trent’anni le case vengono rifatte per essere rimesse in regola. Poi c’è la pressione legata all’espansione economica, penso alle metropoli africane o asiatiche, dove tutti arrivano per cercare lavoro, e in quel caso la velocità del cambiamento è superiore a quella dell’adattamento, si crea una discrepanza, che viene corretta con soluzioni individuali.
Il cambiamento climatico richiede però soluzioni collettive.
La città moderna occidentale è fatta di vetro, ferro e cemento, è concepita per essere più forte del clima. La gran parte delle città americane è pensata per avere la stessa temperatura, non importa che tu sia in un’estate a 45 gradi a Houston o d’inverno a Boston, dove fa freddissimo. Vivono 24 ore su 24 con lo stesso clima artificiale.
È come se anticipassero sul suolo americano la vita che ci aspettiamo su Marte, che vogliamo colonizzare con l’idea di non uscire mai dagli insediamenti. E quindi a quel punto non fa differenza che tu viva su Marte o a Houston.
Del segmento di Homo Urbanus girato a Napoli mi ha colpito come siate diventati quasi invisibili, scivolando indisturbati nel flusso della città. Come ci siete riusciti?
A Napoli tutti guardano ovunque, tutti sono consapevoli di tutto. Noi volevamo farci vedere piuttosto che sparire. Quelli di Homo Urbanus sono film girati dal dentro della scena, come nella sequenza degli scooter, nella quale siamo circondati da decine di motorini in movimento. A Napoli siamo stati quasi attaccati alle persone, filmando con un grandangolo. Di solito le scene urbane sono girate da una grande distanza, con un teleobiettivo, noi abbiamo scelto la strategia opposta. Dopo un po’, quello che succede è che diventi come un turista, estraneo ma parte dell’ambiente.
© Homo Urbanus Neapolitanus / Beka Lemoine
È che, e lo noto da napoletano, avete tirato fuori una città familiare, ma inedita. A tratti sembrava aveste affidato lo sguardo a uno di quei ragazzi in scooter.
Non è complicato riuscirci, ma quasi nessuno lavora in questo modo. Se ti metti in mezzo al flusso e stai lì, nessuno fa più attenzione a te. Hanno altre cose da fare. Ti notano appena arrivi, ma dopo un po’ nessuno ci fa più caso.
La misura di un lavoro del genere è il tempo che scegli di dedicargli.
È ovvio che se arrivi, stai cinque minuti, hai fretta di girare, fai le immagini, poi prendi e vai via, dai fastidio, attiri ostilità. Il nostro metodo è diverso, noi passiamo ore sul posto. Più passa il tempo, meno la gente ci vede.
Per riuscirci conta anche l’infrastruttura dello sguardo, quanto è visibile l’oggetto col quale fate le riprese, dove è posizionato.
La camera è sulla pancia, in questo modo lo sguardo è libero, non è nascosto dall’obiettivo, l’infrastruttura si abbassa, smette di essere un filtro, ci permette un’esperienza diversa delle cose. Homo Urbanus non è fatto per trasmettere informazioni, non è una guida, cerchiamo di cogliere come le persone usano uno spazio. Ha uno scopo comunicativo diverso, un’altezza di sguardo diversa, un tempo diverso.
C’è una forma di negoziazione con i soggetti dei vostri film?
Non è necessario, perché l’altezza dello sguardo, l’atteggiamento, il tempo non trasmettono alle persone inquadrate l’idea di una persona che le sta filmando, ma di una persona che si sta interessando a loro. Come con il signore che vende i fischietti a Napoli, è consapevole di noi, ma non è imbarazzato, si comporta in modo naturale, sono a un metro di lui e c’è un rapporto tra me e lui. Certo, potrei spiegargli cosa sto facendo, il senso del progetto, tutta la operazione, ma non è stato necessario, ha capito tutto con il gioco di sguardi, era chiaro nella nostra dinamica comunicativa che stavamo filmando il suo ruolo all’interno della città. Quando cammini in città sei te stesso, ma sei anche un camminatore in una città, e a noi interessa quel livello, non la biografia, ma l’uso dello spazio. A Seul c’è una serie di persone che dormono in piedi, anche in quel caso ci interessa quel tipo di rapporto con la città, cosa ci racconta, cosa ci mostra, che metafora è, che pesantezza della vita metropolitana sta involontariamente mettendo in scena.
© Homo Urbanus Seoulianus / Beka Lemoine
Uno dei temi più presenti nei diversi film di Homo Urbanus è l’uso del cibo come rivendicazione di una presenza nella città.
Il cibo è una delle dinamiche più importanti nell’uso dello spazio pubblico. Il cibo è problematico, perché è qualcosa di intimo, ma portato all’esterno diventa un atto condiviso, con tutte le conseguenze del caso.
La città è il grande ristorante del mondo, il cibo non è mai solo cibo, è anche rivendicazione, libertà di movimento all’interno dello spazio pubblico. I paesi che lasciano più libertà di mangiare hanno anche un rapporto più aperto con lo spazio pubblico.
Questo è in generale uno dei temi della vostra ricerca: tutti i modi in cui privato e pubblico si intrecciano.
È una delle cose che troviamo più interessanti da filmare, l’appropriazione privata dello spazio pubblico, come quello che accade intorno ai bassi di Napoli. In Sudamerica lo spazio pubblico è sopravvivenza privata. In Cina invece non è una privatizzazione ma un’estensione pubblica della casa, il marciapiede è uno spazio aggiunto, si lavano i denti, a volte c’è una doccia all’aperto, diventa una proiezione della casa. A Napoli l’uso dello spazio urbano è più solido, in Cina è liquido o gassoso.
I film sono stati girati prima della pandemia. In che modo il Covid ha cambiato, accelerato o confermato le vostre osservazioni?
È un’accelerazione immensa, e spero provvisoria, della negazione dello spazio. In sé la città moderna porta già a costruire e immaginare il controllo dello spazio pubblico, Shanghai nel suo processo di modernizzazione lo ha quasi del tutto negato, quello spazio. Il Covid ha aggiunto norme più rigide, stiamo vivendo un’alterazione che ha accelerato un livello di controllo sul quale era comunque fondata la città moderna.
© Homo Urbanus Kyotoiutus / Beka Lemoine
Le dinamiche di potere sono state alterate in modo irreversibile?
La città è un mezzo straordinario per il controllo politico a fini economici. L’architettura e l’urbanistica sono in mano alla politica, ma quel potere agisce per conto di mandanti economici, i costruttori della città, il cui unico interesse è la sua rendita. Quando lo spazio pubblico sfugge di mano diventa pericoloso per il potere e i suoi mandanti. Se la gente prende le strade, la società va in crisi. Parigi è stata ricostruita da Haussmann per questo motivo, per permettere all’esercito di arrivare in fretta nei punti cruciali, in questo senso è un sistema di bulloni per chiudere lo spazio pubblico.
L’assembramento era considerato pericoloso già prima del virus. Se fossi il potere, avrei voglia che le città rimanessero così come sono oggi, perfettamente controllabili.
Cosa accomuna i diversi homo urbanus che avete filmato? Qual è il loro tratto distintivo?
La collettiva e globale difficoltà di adattarci a un ambiente che ci siamo creati da soli. La fatica di cui abbiamo bisogno per vivere dentro la nostra stessa creazione. È come costruirsi una casa e invece di poter dire: “ah, come si sto bene”, dover iniziare ad adattarsi per abitarci, perché la casa non si adatterà a noi. E poi la vitalità che nasce da questo processo di adattamento, il rapporto inversamente proporzionale che c’è tra l’ordine e la vitalità. E lo slittamento del desiderio: il caos crea problemi e ti spinge verso l’ordine, l’ordine crea noia e ti riporta al caos. È difficile trovare il punto di equilibrio, sia collettivamente che individualmente.
Foto di copertina © Homo Urbanus / Beka Lemoine