Dal nuovo disco agli scherzi di Propaganda: Roberto Angelini spiega ai giovani come fare musica di protesta.
Nella sua lunga carriera, Roberto Angelini ha vissuto diverse fasi artistiche: da cantautore impegnato (premio della critica a Sanremo) a star del pop con Gattomatto, ma anche produttore per la propria etichetta indipendente, autore, session man per diversi artisti (da Niccolò Fabi a Emma Marrone), filologo di Nick Drake e molto altro. Forse oggi la maggior parte delle persone lo riconosce come “resident guitarist” di Propaganda Live, ennesima declinazione del mestiere di musicista che Angelini ha deciso di vivere al 100%, come un uomo libero che può permettersi di vivere la musica oltre la necessità dei grandi numeri.
Agli inizi di dicembre ha pubblicato un nuovo singolo, Incognita, che uscirà insieme al nuovo album. L’abbiamo intervistato per farci raccontare la sua carriera, cosa ne pensa della musica contemporanea e come si vive la musica in televisione oggi.
© Giovanni Cocco / LUZ
Una frase che mi ha colpita del tuo nuovo singolo è “Di te cosa mi resta / un biglietto in tasca / dopo lo show”, che sembra una cosa lontanissima nel tempo pensando ai concerti. So che questa canzone ha origini altrettanto lontane, me le racconti?
Il giro di chitarra è nato come spesso nascono le canzoni, nei ritagli di tempo mentre stai facendo altro. Stavo suonando nel tour di Ecco, nel 2013, con Niccolò Fabi, e ad aprire i concerti c’era Bianco. Avevo questo giro e ci abbiamo lavorato insieme per una notte intera in un albergo deserto. Me lo sono portato appresso per un po’ di tempo, e poi, in un periodo in cui stavo lavorando molto come autore per altri, mi hanno chiesto una canzone per un artista che mi ha dato lo stimolo per trovare la melodia e scrivere le parole. Quel progetto non è andato in porto ma la canzone è rimasta nei miei hard disk.
Mi sono reso conto che avevo accumulato 10 pezzi, scritti con persone diverse, in periodi diversi, ma che avevano un senso insieme, e quindi era giusto che pian piano fossero pubblicati. È così che Incognita ha preso questa forma.
Tutto quello che sta uscendo e che uscirà da qui nel prossimo anno deriva da materiale nato in questi anni in cui ho fatto miliardi di altre cose, che fortunatamente mi hanno reso uomo libero, perché la cosa più bella che posso dirti è che non sono costretto a fare i dischi per forza. Li faccio quando ho necessità di farli.
Tra cantautore, produttore, autore, session man, qual è il ruolo che ti ha dato più soddisfazione fino a qui?
Ogni esperienza è legata all’altra. Il mio stato di apparente serenità deriva dal fatto che ogni volta che una cosa potrebbe annoiarmi, ne entra un’altra che diventa una novità e viceversa. Il percorso classico di un musicista prevede che si faccia prima il disco, poi il tour: una parte del lavoro è stare in giro per mesi senza andare mai a casa, l’altra è stare a casa a lavorare a un disco, e in ognuna delle due fasi c’è voglia dell’altra. Nel mio caso, invece, ho 5-6 fasi che girano, e da ognuna ho avuto grandissime soddisfazioni.
La cosa che mi piace di più è suonare la chitarra lap steel e fare il session man. Lo adoro, perché mi fa sentire veramente libero, in quel momento sono un musicista che vive l’attimo, dopodiché volo su un altro fiore e suono su un altro brano con un altro artista, senza troppe responsabilità.
Quando invece faccio una cosa mia c’è preoccupazione e ansia, sentimenti che non se ne vanno, nonostante io abbia 45 anni e lo abbia fatto già per molto tempo. Nei giorni in cui è uscita Incognita sono stato in ansia, anche se pensavo di aver passato quella fase.
Quando esce un pezzo nuovo sei come un ragazzino col fiato corto, vuoi capire se va tutto bene, se è piaciuto, se è sbagliato, non sai che pensare, sai semplicemente che la notte dormi meno bene del solito.
Anche scrivere per altri ha la stessa bellezza, ma tu dai la canzone in altre mani e il suo destino non dipende più da te. Tra scrivere e suonare, però, mi stimola la seconda, perché è più immediato. Scrivere prevede la scintilla di un’ispirazione, qualcosa che deve arrivare e non è detto che arrivi sempre.
© Giovanni Cocco / LUZ
Visto che in Italia non sono molti i musicisti che suonano la lap steel, vorrei farti una domanda un po’ nerd: qual è la tua chitarra preferita e qual è invece la chitarra che hai sempre desiderato e non hai mai avuto?
La mia chitarra preferita non può che essere la Lap Steel Gretsch made in China del valore di €240 che è stata la mia compagna di viaggio negli ultimi 10 anni, da quando ho ricominciato a suonare nei piccolissimi locali in giro per Roma portandola a tracolla sul motorino. Se la vedi è disintegrata, sembra una chitarra di 25 anni, in realtà è moderna, non di valore, ma per me è importante. La chitarra che mi manca invece è una National, tutta in metallo, compresa la cassa di risonanza, sempre da suonare con lo slide.
Invece come produttore che tipo sei? Severo, empatico, esigente, accondiscendente?
Toglierei il severo perché non è nel mio carattere, sicuramente sono empatico. Se fai il produttore devi avere quella sorta di presunzione latente di riconoscere il talento, e io ad esempio l’ho riconosciuto in Margherita Vicario. Lei mi fece sentire le sue canzoni assurde, voleva fare una sorta di musical. Sono stato il suo produttore assecondando il suo talento e le sue voglie, cercando di portarle fuori al meglio. Ho messo a disposizione la mia esperienza e con una squadra di musicisti, fonici, illustratori e altre figure necessarie, abbiamo lavorato coerentemente intorno a un’idea legata a Fiori Rari, la mia etichetta.
Però ti confesso che non vorrei farlo più, perché spesso gli artisti quando sono in studio pensano a tutto tranne che alla musica, e il produttore diventa uno psicologo.
A volte impieghi anni dietro alle follie degli artisti ed è veramente faticoso. Ne potrebbe valere la pena, come gratificazione, quando poi un artista si realizza o raggiunge certi obiettivi però, come ti dicevo prima, io preferisco suonare, perché è un’attività estemporanea, è come una performance. Ho capito negli anni che è la cosa che più si addice al mio essere.
Non è da tutti sapere individuare che cosa ci rende felici, come hai fatto a capirlo?
Da ragazzino volevo essere il leader di una band, poi ho desiderato fare il cantautore e dopo ho scoperto che amavo stare in una squadra e lavorare sulla fascia, come con Niccolò Fabi. Sono tutte esperienze che uno intraprende e piano piano cerca di capire che cosa lo faccia stare bene. Mi fa piacere lavorare con Diego (Bianchi, ndr), con Niccolò, con Rodrigo D’Erasmo. Nei giorni in cui ho dovuto affrontare l’uscita del mio nuovo singolo, ho sofferto a dover lavorare su e con me stesso. È una soddisfazione quando ti arrivano dei bei messaggi, affetto e comprensione da parte di persone che si ritrovano in quello che scrivi. Ma non ti nascondo che ricercare un suono con la slide e trovarsi dei ragazzi in giro per l’Italia che hanno comprato quella chitarra perché ispirati da me, in fondo in fondo, mi ha dato più soddisfazione di chi è arrivato per chiedermi un autografo sul mio disco.
© Giovanni Cocco / LUZ
Nell’estate del 2020 ti ho visto dal vivo con Niccolò Fabi, quindi sei stato tra quei musicisti che seppure limitatamente si sono potuti esibire dal vivo. In questo periodo di forte crisi del settore, quanto ti ha aiutato avere un ruolo fisso in televisione?
Certi tipi di concerti nascevano già “Covid friendly”, nel senso che il concerto di Niccolò sarebbe stato uguale sia con che senza la pandemia, quindi con il pubblico seduto nei parchi e un’impostazione acustica. Anche con Rodrigo D’Erasmo quest’estate ho potuto suonare Nick Drake, e proprio il fatto che i locali avessero bisogno di concerti tranquilli ci ha permesso di esibirci.
È chiaro che essere a Propaganda Live mi è stato molto di aiuto in questo periodo in cui tutto il resto si è bloccato. Mi sono sentito fortunato, soprattutto tra marzo e aprile 2020 quando c’eravamo solo noi a girare per la città il venerdì sera. Ho potuto lavorare e non avere problemi. La parte più tosta l’ho vissuta nella mia seconda vita di proprietario di un ristorante giapponese, con casse integrazioni, richieste di prestiti e burocrazia.
Tu sei nella squadra di Propaganda dalla prima ora, com’è fare questa esperienza come musicista?
Per me i sette anni tra Gazebo e Propaganda Live insieme a Diego, Makkox e tutta la squadra, sono stati assolutamente incredibili. Hanno cambiato il mio modo di vivere la musica, e mi hanno dato una connotazione diversa, sia nel mondo musicale che in generale. Faccio parte di questa “armata Brancaleone” dalla prima ora e so che chi vuole bene al programma vuole bene a ogni suo personaggio. Per essere utile al programma bisogna fare cose che normalmente non faccio, soprattutto per quanto riguarda l’ironia e gli sfottò. Basti pensare a come ho giocato con una canzone che pensavo di aver sotterrato 8 anni fa dopo tanta fatica, invece è tornata come uno zombie.
È la settima vita del Gattomatto che incredibilmente ha preso una nuova luce anche per me, mi è ridiventata simpatica, quindi oggi se qualcuno mi chiama Gattomatto per strada sorrido, non mi dà fastidio.
Con i miei amici commentiamo spesso il fatto che ti bullizzino con questa storia del Gattomatto.
– ride – È chiaro, devi accettare di essere bullizzato, perché lì sono tutti bullizzati in maniera più o meno sottile, dai maglioncini di Damilano alla povera Schianchi, fino allo stesso Makkox, che viene chiamato “genio” così tante volte che alla fine diventa uno sfottò. Siamo veramente un gruppo di amici che si prende in giro, e bisogna saper sopportare gli scherzi.
© Giovanni Cocco / LUZ
Propaganda è molto virtuoso dal punto di vista della proposta musicale, ma secondo te che tipo di programma manca nella televisione italiana che potrebbe raccontare la musica veicolando un messaggio che vada oltre, per esempio, quello dei talent?
Ritengo che i talent siano un grandissimo spettacolo televisivo, soprattutto X Factor è una grande kermesse televisiva, ma sai cosa mi piacerebbe? Un format in stile Propaganda, applicato esclusivamente alla musica. Insomma uno spin-off con la stessa mentalità, lo stesso graffio, che poi è quello che manca alla tv musicale: l’ironia, dirsi un po’ di cose in faccia, giocare coi social degli artisti. Invece c’è solo una grande esaltazione dei numeri e di quel tipo di talento brillante che in verità non si ritrova in buona parte della musica meravigliosa che ascoltiamo in Italia. Molti dei musicisti che amo non sarebbero mai arrivati oltre il primo turno di X Factor.
Poi mi mancano quei programmi di fine anni ’90 dove vedevi persone come Ani DiFranco, Ben Harper, Carmen Consoli, sedute su un divano a chiacchierare di musica, con un palco aperto dove potevi permetterti di suonare un brano di 7 minuti con una grande parte strumentale, perché non c’erano tempi televisivi. C’è questa grossa convinzione per cui la musica in tv non funziona, e probabilmente è vero, magari va solo se ci sono quattro personaggi che giudicano l’accaduto. Poi c’è Sanremo, ma Sanremo è Sanremo…
Ai tuoi esordi sei passato da Sanremo, oggi con che spirito ci torneresti?
Ci tornerei con una canzone di cui sono davvero convinto, non lo rifarei per cambiare il corso della mia vita, perché non ne ho bisogno.
Ho avuto una vita particolare, ho avuto tutto, ho avuto una fama che mi ha tolto il respiro e godo della mia meravigliosa popolarità di oggi, di questa zona dove posso essere libero di fare quello che mi piace.
Se dovessi andare a Sanremo ci andrei con una canzone che mi piace, semplicemente per dare a questa canzone la massima visibilità con un solo play. E poi in fondo in fondo perché è un’esperienza che 20 anni fa mi ha molto divertito, ma ero un ragazzino. Mi piacerebbe riviverla da adulto, ci sono andato molto vicino. Se non c’è in ballo la tua vita è divertente, magari ti porti su un po’ di amici e ti godi quel bel posto, i ristoranti, la sala verde prima di entrare sul palco e tutto il resto.
Tra l’altro Sanremo funziona in modi imperscrutabili, mi vengono in mente due esempi recenti: l’esclusione di Riccardo Sinigallia, e l’abbandono di Bugo e Morgan, che potevano essere due episodi drammatici per una carriera musicale ma alla fine hanno fatto più bene che male.
Sai, Riccardo è della mia stessa scuola, io devo a lui il fatto di aver ottenuto il mio primo contratto discografico. Gli ha fatto bene andare a Sanremo per far sentire una bella canzone a più persone possibili. Ma non credo che il nostro genere sia destinato a spazi giganti, è semplicemente destinato a una sua sopravvivenza come un bel negozio di artigianato in un angolo del centro di Roma, che ha senso di continuare a esistere nonostante Amazon, perché hai piacere di farti una passeggiata e andare lì.
© Giovanni Cocco / LUZ
Una volta ho letto un’intervista a Sinigallia in cui in sostanza affermava che in Italia, per avere successo, devi avere anche un quid estetico, che non significa per forza essere belli, e per spiegare questo concetto faceva l’esempio di Lucio Dalla e di Nick Drake, che a suo parere in Italia non sarebbe mai stato notato. Da grande studioso e appassionato di Drake, me lo commenti?
Nel momento in cui è uscito, Nick Drake era un pesce fuor d’acqua, faceva una musica che non era giusta per il suo periodo storico.
Fare musica è un’alchimia, ci sono persone che scrivono grandi canzoni ma sul palco non hanno empatia, e altre che appena aprono bocca tutti gli credono.
Parlando col suo fonico e il suo produttore, è emerso che nei concerti non c’era la possibilità di far uscire bene uno che cantava con un soffio di voce e pizzicava la chitarra in maniera molto delicata, perché non c’erano i mezzi tecnici che ci sono oggi. Invece un Bob Dylan, che cantava con una voce chiara, forte, e che suonava la chitarra strumming, aveva la possibilità di arrivare molto più lontano proprio a livello di suono, a prescindere da quello che diceva e da quello che ha rappresentato come songwriter politico, cosa che Drake non era assolutamente. Se lo poteva permettere perché era di buona famiglia, ricca, come sempre è successo nella storia dell’arte.
Gli artisti con una tranquillità alle spalle si sono potuti permettere di indagare sui problemi dell’animo umano, mentre chi aveva dei problemi andava in piazza.
A questo proposito, non trovi che la musica così detta “politica” o “di protesta”, sia scomparsa in Italia? Ho notato che anche a Propaganda per commentare i momenti più politici si scelgano brani indietro nel tempo, mentre la musica più contemporanea viene usata per ottenere un effetto paradossale.
È una questione a cui penso spesso. Non è che ora ci sia uno stato diffuso di benessere, ma di sicuro le ragioni sono da ricercarsi nel fatto che non c’è più quella spinta a scendere in piazza che c’era un tempo, e la canzone più di protesta che c’è adesso è un certo tipo di rap.
Manca la rabbia nelle canzoni dei cantautori degli ultimi anni, che raccontano molto bene la propria generazione, una generazione disillusa, che non sa come dire ti amo e come lavare le pentole.
Mi colpisce l’ultima ondata di cantautori perché ha capito come parlare al proprio pubblico, in un momento in cui il cantautore in quanto figura sembrava finito. Anche se le esperienze più interessanti sono state poi annacquate da moltissime copie, l’aspetto nuovo è l’interesse della gente, la capacità di riempire club e palazzetti. Però in effetti non c’è rabbia, non c’è protesta, e mi auguro che dopo quest’anno ci possa essere un ritorno a un po’ di musica forte, che però non deve venire da noi che abbiamo 40 anni. Me lo auguro per i gruppi che si incontrano a 16, a 18, a 22 anni, mi auguro che si creino dei nuovi Litfiba, dei nuovi CSI, dei nuovi Area. Mi piacerebbe che si tornasse a suonare forte e bene, e che ci siano personaggi che scrivano parole di protesta, magari perché questo periodo avrà creato quell’urgenza.
© Giovanni Cocco / LUZ
Se posso dirti la mia, quello che credo manchi nella scrittura dei cantautori contemporanei è un elemento universale astratto che renda le canzoni durature nel tempo. Ti faccio un esempio: qualche settimana fa per commentare la carrellata su Maradona a Propaganda, avete usato “Quello che” dei 99 Posse, che è una canzone che parla di sentimenti purissimi che ognuno può applicare e interpretare in diverse situazioni della propria vita, e che la rende a distanza di più di 20 anni ancora una canzone passpartout.
Hai ragione, ma credo sia una caratteristica dell’oggi, di questo periodo molto “usa e getta”. Ho l’impressione che la musica contemporanea, a parte rarissimi casi, racconti molto bene il periodo presente, ed è vero che manca l’universalità della parola, ma manca anche ricerca nel suono. Se ci guardiamo indietro agli anni ’90, ogni band aveva un sound ben definito, molto diverso l’uno dall’altro. Da ascoltatore, se ti piaceva un gruppo magari non ti piaceva l’altro. Adesso c’è un appiattimento sonoro, e se sei un amante della musica, del sound, può succedere che della musica contemporanea italiana non ti piaccia niente, perché non si trova uno spunto musicale caratteristico. Per farti degli esempi vicini a me, se pensi a Tiromancino, Fabi, Silvestri, Gazzè, Bersani, Capossela, ognuno ha un suo sound molto preciso, invece il grande problema dei cantautori contemporanei è che ogni volta devi cercare di capire chi stai ascoltando.
Visto che abbiamo appena concluso un anno musicale particolare, qual è il tuo disco preferito del 2020?
Ho ascoltato tantissimo Græ di Moses Sumney.
Tuo figlio ha circa 15 anni, lui cosa ascolta?
Mio figlio è particolare, è estremamente interessante quello che gli passa per la testa. Suona da quando ha 3 anni, meglio di me, tutto tranne la chitarra, ma ora si è fissato anche con quella. Ha un’attitudine musicale assurda e di base gli piace il nu (o neo) soul e sta in fissa con Jacob Collier, un talento estremo che piace molto ai ragazzi. Non tralascia la contemporaneità, gli piace la trap americana, come Post Malone. È probabile che nel mio prossimo disco ci sia un brano strumentale di mio figlio, è di qualità, forse la traccia più bella.