Lo sguardo di Barbero sul mondo di Dante, sui giovani e sugli agi borghesi.
Alessandro Barbero è il divulgatore di storia che definire come “il più apprezzato” sarebbe riduttivo: le sue lezioni, i suoi libri e il podcast a lui dedicato, curato da Fabrizio Mele, sono diventati veri e propri oggetti di culto.
Nato a Torino il 30 aprile 1959, è docente ordinario di Storia medievale all’Università del Piemonte Orientale (UniPo) con sede a Vercelli. Ha scritto numerosi saggi di volta in volta più tecnici o divulgativi. Ha vinto il premio Strega nel 1996 per il suo primo romanzo Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo e il premio Le Goff nel 2012. Il suo ultimo libro è il saggio Dante, edito da Laterza.
Caro professore, come sta vivendo questi tempi straordinari?
Male, come tutti. Considerando globalmente l’anno, per me è stata anche l’occasione di ripensare alcuni aspetti della mia vita: mi sono reso conto di quanto andavo in giro, di quante volte parlavo in pubblico e di quanta dispersione subiva il mio lavoro. Ora il mio lavoro ne guadagna, ma pesa la considerazione di quanto la vita non sia fatta solo di questo. So che per molti proprio la sua assenza è diventata un dramma, non voglio essere frainteso, ma sono importanti anche i riti naturali del tempo libero, dello stare con gli amici, dell’andar fuori o i riti del Natale e del capodanno che accettavamo come un obbligo fastidioso. Ora, invece, ci accorgiamo che la nostra vita è fatta anche di quei ritmi lì, di quelle alternanze, di quei momenti forti. Non è uno scherzo, è una fatica per tutti e la sento anch’io.
© Alessandro Albert
Lei è diventato un’icona assoluta in un immaginario collettivo trasversale, che coinvolge ragazzi, universitari e adulti. Io credo sia una questione di vividezza e passione nel racconto, come se avesse donato una terza e anche una quarta dimensione alla divulgazione storica. E non solo, sinceramente io sono rimasto affascinato anche dalle sue lezioni su Il maestro e Margherita di Bulgakov e sulla biografia e l’opera di Anna Achmatova. È riuscito a spiegarsi il perché?
Gli accenti russi sono un grande mistero, ma lei li ha azzeccati…Una delle cose più difficili è dire perché succedono le cose. Un conto è se uno deve prendere delle decisioni, o impostare delle strategie, e allora è utile soffermarsi su cause ed effetti. Però, per come sono fatto io, tendo a osservare che questa cosa è successa e va benissimo così. Fine.
Poi, siamo d’accordo anzitutto sul fatto che la storia sia di per sé affascinante. Per quanto ci possa risultare ostica a scuola, poi domina nei romanzi, nella fiction e ovunque.
Romanzi storici ne escono continuamente e sono dei grandi successi; è pieno di serie televisive di ambientazione storica, quindi è chiaro che la storia interessi tutti. A me viene di raccontarla in modo efficace, forse l’unica cosa di cui posso essere sicuro – perché me l’hanno confermato in molti – è che io riesco a trasmettere molto la mia passione.
A un certo punto nel libro c’è un’interessante e dettagliata digressione sulla presunta agiatezza del grande fiorentino e sulla sua discendenza. Si è divertito a raccontarlo? Esiste un divario tra la vastità della letteratura su Dante e i documenti e le fonti primarie sulle quali è possibile studiare?
La letteratura su Dante è vastissima ed è tutta utile per lo studioso che se ne occupa. Però, anche quando si consultano libri dal titolo “Vita di Dante” – e ce ne sono tanti – la motivazione è sempre quella di esplorare un grande letterato. E questi libri sono scritti di solito da dantisti e da italianisti, i quali svolgono in modo eccellente il loro lavoro, e cioè di spiegarci che cos’ha messo Dante nella sua opera e cosa noi ci possiamo ritrovare. Quando si tratta di autori che non sono storici, si rischia di trascurare aspetti della sua biografia e perdere notizie che certi documenti ci possono dare. Se da un lato esiste una bibliografia su Dante, dall’altro esistono una marea di documenti, perché gli eruditi hanno scavato negli archivi alla ricerca di documenti notarili, di consigli comunali in cui è menzionato. Già nella sua stessa epoca, quando si trovavano documenti a riguardo, disegnavano una manina a margine e scrivevano “Dante!” in modo che quel documento non si perdesse. Sono solo una decina d’anni che gli storici se ne stanno occupando.
Io sono forse il primo che ne ha tirato fuori un libro intero, un tentativo di far vedere come questa marea di documenti d’archivio interpretati da chi ha una conoscenza profonda di quel periodo e di quel mondo, ci rivelano alcuni aspetti finora meno evidenziati.
© Peter Schickert / VISUM / LUZ
E proprio in riferimento alla completezza e all’ampiezza di questo saggio, va detto che può sorprendere chi è abituato ad ascoltarla nei podcast o abbia magari letto le sue opere letterarie: a mio avviso questo libro non è di facilissima lettura, ma è un tributo scrupoloso, onesto e senza retorica, ricco di spunti, soprattutto. Restituiscono un’immagine molto fragile dell’uomo che ne è protagonista. Chi era Dante per davvero?
Non sono certo di saper sintetizzare chi era Dante nel suo animo, quello che mi interessava fare era vedere in cosa consisteva la vita di un uomo del Medioevo. Anche Dante faceva quello che gli altri facevano. Combattere, per esempio. In battaglia, a cavallo, coperto di ferro, rischiando la vita in un giorno di giugno, è una cosa che hanno fatto migliaia d’altri.
O anche fare politica in un comune, partecipare a sedute dove c’è un ordine del giorno e decidere se alzarsi a parlare a favore o contro; votare in segreto o in modo palese; se ci si espone come membri di una corrente, di un partito, come servi di un regime o invece come oppositori o dissidenti: queste sono cose che hanno fatto tanti altri come Dante.
Anche nell’intimità: avere dei figli, doversi preoccupare di loro, doversi preoccupare di sistemarli; questa è una preoccupazione universale, ma a quei tempi c’erano delle modalità specifiche. Come Dante fosse nel suo carattere e nel suo animo è una cosa che viene fuori in altri modi.
È sicuro che Dante avesse un’opinione molto alta di sé, e dagli torto del resto!
È sicuro che ha avuto le sue contraddizioni tra le sue idee, quando era un uomo di un Comune o quando era al servizio degli Scaligeri, per esempio. Ci sono delle trasformazioni: da un lato è una persona molto intransigente, convinta di aver ragione in un mondo d’imbecilli, ma ci sono anche lati che lo rendono più umano. Magari non più simpatico, ma più umano.
Il suo libro serve anche a svecchiare quell’idea del Dante patriota che opera una scelta dirompente optando per la lingua volgare invece del latino. Sembra piuttosto una conseguenza della realtà delle cose. Perché a Firenze queste dinamiche hanno attecchito e in Sicilia, da cui è nato tutto con la Volgare Scuola Siciliana, non è accaduto?
La volgare Scuola Siciliana ha avuto un’influenza grandissima, ma questa dinamica era strettamente legata a una corte regia che poi è scomparsa: il tentativo di Federico II di costruire una monarchia ha avuto successo per qualche anno, ma poi è fallito. Indubbiamente si svolgeva anche in un contesto meno internazionale. Firenze, invece, era un po’ la Londra o la New York dell’epoca. Bonifacio VIII diceva che i fiorentini sono il quinto elemento della creazione: ovunque tu vada hai dei fiorentini tra i piedi. Per questo l’esperienza fiorentina è stata più fondativa rispetto a quella dei poeti siciliani. A Dante viene molto naturale usare il volgare, perché è la moda della sua generazione, ma ovviamente la normalità era pensare, scrivere e leggere in latino, perché era la lingua universale. Nella Vita Nova, Dante scrive che prima c’erano solo i poeti latini, ma da qualche tempo si scrivono versi d’amore in volgare. Fa questo come lo facevano i suoi amici Guido Cavalcanti e Forese Donati: è un grande divertimento, un’opportunità intellettuale, una bella sfida. Continua comunque a scrivere opere in latino e forse per un attimo ha pensato di farlo anche per la Commedia, spinto da giovani umanisti. Ma credo che per lui non fosse una necessità dirompente: assecondava il gusto della sua generazione.
© Aytunc Akad / Panos Pictures / LUZ
E il Dante patriota? Qual era la sua idea di Italia, avendola immortalata nei versi come “serva” e “donna di bordello”?
L’Italia esisteva, ma a quei tempi si cominciava appena a determinare i concetti e la terminologia per designare l’identità italiana. All’università di Bologna era normale che gli italiani si mettessero tutti insieme tra loro e che gli “stranieri” formassero un’altra corporazione. Però tra di loro si definivano “montani” e “ultramontani”, non gli veniva in mente di dirsi “Italiani”.
Dante analizza la lingua e ha chiarissimo che i vari dialetti che si parlano in Italia sono tutte forme della stessa lingua; lo intuisce in maniera quasi sovrannaturale. Però non chiama questa lingua “italiano”, ma lingua del sì. E quando parla di “noi italiani” dice “noi latini”.
Il vero patriottismo per i contemporanei di Dante è nell’appartenenza alla propria città, perché quella che non esiste in Italia è l’unità politica. Dopodiché è chiaro che si può parlare di patriottismo italiano solo in confronto con gli “altri”, francesi o tedeschi. C’è un’idea precisa dell’identità geografica e linguistica, ma si stanno ancora cercando i termini per esprimerla. Poi accadrà tutto in fretta e già Boccaccio parlerà di mercanti siciliani, genovesi, veneziani e altri italiani – il primo uso, credo, di questo aggettivo per indicare tutti quanti. Entro il Trecento, dunque, la cosa è fatta, e aiuta anche il periodo del papato avignonese. Il fatto che il Papa vada via da Roma spinge gli italiani a dire che, a tutti loro, non va bene. Anche Santa Caterina da Siena ha scritto delle lettere rivolte a tutti i cardinali italiani, esortandoli: “Voi italiani eleggete un papa italiano, per piacere. Basta con questi papi francesi!”.
Visto che lei ha accennato al Trecento, ho provato a ricostruire un’impressionante linea temporale di ciò che accade nell’arco della vita di Dante: nel 1298 Marco Polo scrive, anzi, detta Il Milione; nel 1304 nasce Petrarca e due anni dopo Dante comincia a scrivere la Commedia. Giotto avvia i suoi lavori per affrescare la basilica di Assisi e poi nasce Boccaccio. Eppure nello stesso secolo abbiamo il papato ad Avignone, quindi una grande crisi nella cristianità, poi la peste nera, e non manca la guerra, anzi. Di che cosa parliamo quando parliamo di Rinascimento? Il nostro mondo può apprendere una qualsiasi lezione pratica dall’insieme di questi fatti?
La lotta degli storici è quella di introdurre nella nostra cultura o conservare in essa un’attenzione alla dimensione del passato, andando contro la tendenza spontanea.
Le persone vivono nel presente e si preoccupano del futuro. Il passato è un’appendice più o meno amata quando si tratta del proprio. Il nostro problema non è che da un singolo avvenimento o periodo ci sia una lezione specifica da trarre. La storia è semplicemente una dimensione che arricchisce la nostra capacità di stare al mondo, la comprensione di cosa vuol dire la vita umana.
E apprendere questo ci arricchisce, perché vivere la propria vita senza sapere come faceva chi c’è stato prima di noi significherebbe dover reinventare tutto. Conoscere la storia dell’umanità, invece, dà uno strumento in più e maggiore profondità per valutare quello che noi facciamo e quello che succede nei nostri tempi.
Per quanto riguarda il Rinascimento: quello che lei ha descritto in realtà è Medioevo, beninteso. Il Rinascimento è il risultato del progresso e della crescita avvenuti nel Medioevo, che hanno permesso di creare una società piena di contraddizioni e limiti, ma al tempo stesso vitale. È per questo che sono stati avviati i contatti con la Cina, che si sono scoperte nuove tecniche di navigazione fino ad arrivare in America, e che è stata inventata la stampa, perché erano secoli che si cercavano sistemi per abbassare il costo dei libri. Il Rinascimento è il culmine di una crescita avvenuta nel Medioevo, che a un certo punto è diventata evidente, e così gli artisti e gli intellettuali hanno iniziato a “montarsi la testa” e a guardare dall’alto verso il basso i loro predecessori.
Così succederà che Petrarca e Boccaccio, con tutta la loro ammirazione per Dante, sentiranno di vivere in una società un po’ più colta della sua e alla fine del Trecento gli umanisti, sempre ammirandolo, si diranno: sì, però il latino lo sapeva male…
Dante stesso ci dice: pensavamo che Cimabue fosse un grande pittore, poi ne è arrivato uno meglio, Giotto. E nel Quattrocento diranno: con Giotto hanno cominciato a fare meglio di quello che facevano prima, ma niente in confronto a quello che facciamo noi adesso!
© Alberto Conti / LUZ
Ho provato a fare una domanda che ci riportasse al presente, ma immaginavo che la sua risposta sarebbe stata…
…Evasiva.
Alcune riflessioni che ritengo importanti sul presente, scusandomene: mi entusiasma la disponibilità con la quale si presta al dialogo con studenti e studentesse. Che valore dà a questo scambio e quale definizione darebbe del termine “giovane”?
Sono molto riluttante a considerare i giovani una categoria. Tutti passano attraverso la giovinezza e tra loro ci sono le stesse differenze che ci sono tra i quarantenni e i settantenni: è pieno di gente in gamba ed è pieno di stupidi, di gente per bene e meno per bene, vale per i giovani come per la società nel suo insieme.
Le caratteristiche individuali contano di più dell’appartenenza a una generazione. Da ragazzo non ero per niente contento quando sentivo dire: “i giovani son così”. Come “i giovani”? Io sono io. Incomincio, tuttavia, a credere che la generazione a cui si appartiene conti.
Subire l’impatto dell’epidemia, delle restrizioni, della didattica a distanza, se sei uno studente delle superiori o dell’università fa una certa differenza. Oggi più che dieci anni fa, magari. Giocarsi un anno di liceo o di università è grave, malgrado i salti mortali che queste istituzioni stanno facendo per ridurne le conseguenze. Concludo con quella che è la mia esperienza degli studenti: li definirei, in generale, estremamente attenti, educati, timidi, spesso pudichi, forse a volte un po’ troppo fragili, comunque persone con le quali è estremamente piacevole avere a che fare.
© Isabella De Maddalena / LUZ
Considerando i tempi che stiamo vivendo, ritiene che i paradigmi della vita borghese come la conosciamo possano reggere ancora molto? Qual è una parola-chiave (un tempo si sarebbe detto parola d’ordine) sulla quale dovremmo riflettere di più?
Forse perché sono un borghese io stesso, e ho ormai una certa età, mi rendo conto di essere diventato meno radicale di una volta. Bisogna stare attenti allo sfruttamento, alle disuguaglianze, alla povertà. Ma di per sé, non c’è nulla di sbagliato nel fatto che la gente voglia vivere con degli agi borghesi, chiamiamoli così. Da vecchio comunista non ho nessuna difficoltà a dire che anche la lotta contro la disuguaglianza e contro l’oppressione e la povertà non deve essere vissuta nei termini di più rigore e purità.
I piaceri e le comodità della vita sono aspirazioni cui tutti hanno diritto. E le restrizioni con cui tutti stiamo facendo i conti, sebbene rispetto al rischio, alla morte e al dolore hanno senso, non dobbiamo credere che siano sacrifici minimi e trascurabili.
E devo dire che un grande interrogativo per me è capire se la nostra vita tornerà a essere quella di prima. A me quelli che dicono che non sarà più così, francamente spaventano un po’.
In poche parole, farebbe un salto sulla Lamborghini di Fedez per andare a distribuire pacchetti di banconote
– ride – Se uno va in giro a regalare biglietti da mille, ammesso che esistano, o biglietti da cinquecento o monete d’oro, è padrone di fare quello che diavolo preferisce. Il discorso è complicato, ma c’è chi ha fatto tanti soldi sfruttando palesemente il lavoro e la fatica altrui e chi ha avuto successo. Nel nostro mondo ci sono disuguaglianze vergognose ma specialmente nel senso del disinteresse per i diritti dei lavoratori, della compressione dei salari, dei profitti immensi del capitale non tassato. Ecco, queste cose gridano vendetta. E dirlo non è neanche una cosa da comunisti: l’ha detto anche Gesù che non pagare la giusta mercede ai lavoratori grida vendetta al cospetto di dio. Che non mi sembra uno dei passi evangelici più spesso ricordati, di questi tempi.