Perché è così difficile capirsi sui social media? Lo racconta un manuale per vivere felici e connessi: perché le parole sono importanti. Oggi più che mai
Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice, insegna all’Università di Firenze, Bruno Mastroianni, giornalista e filosofo, collabora con l’Università di Perugia ed è consulente per i social media di alcune trasmissioni di Rai1 e Rai3.
Sono due che internet lo conoscono bene e lo vivono da sempre; e i social media li conoscono forse ancora meglio. Abituati come sono a rispondere, confrontarsi, discutere quotidianamente in un ecosistema online che forse sta cominciando a nauseare molti.
Invece c’è da fare un passo indietro. Non spegnere né sloggarsi da nulla, e accendere il cervello: almeno, in caso fosse in precedenza spento. È questo il senso di Tienilo acceso – Posta, commenta e condividi senza spegnere il cervello, un manuale per vivere felici e connessi, uscito per Longanesi a fine agosto.
Posta, commenta e condividi senza spegnere il cervello: direi che c’è parecchio da fare. Da dove cominciamo?
[VG] Il centro del libro e della nostra idea è che dobbiamo smettere di pensare che sia qualcuno a risolvere il problema per noi. Dobbiamo piantarla di delegare altrove l’impegno di migliorare internet, che a farlo siano i governi, le istituzioni, le multinazionali, e così via. La nostra proposta è quasi occamiana, molto semplice: occorre partire da noi, dagli utenti. Perché ognuno di noi ha il potere di migliorare l’ambiente che lo circonda. Il primo passo? Fare più caso a quello che si dice e a come lo si dice.
Dite che “Bisogna riscoprire il valore del dissenso, anche quando espresso malamente e fastidioso”. Ci vuole una pazienza da Dalai Lama: come la coltiviamo?
[VG] Per via di come erano strutturate prima le nostre vite, era meno scontato incontrare il dissenso in maniera così esplicita, violenta. Adesso ogni volta che andiamo online e scriviamo qualcosa arriva qualcuno che dice “Eh no! Non sono d’accordo”, anche se hai scritto un aforisma o una poesia. L’incontro con il dissenso è diventato ordinario, costante. È un’esperienza quotidiana e dobbiamo riuscire a rapportarci con quel dissenso senza che provochi un trauma. È naturale che ci sia il dissenso, ma bisogna trovare nuove strategie per conviverci, ci vuole un po’ di sforzo, ma è possibile. Si può fare.
Vera Gheno © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Nel vostro libro auspicate l’umanizzazione del web. Ovvero?
[VG] Alla base del libro c’è l’idea che la rete siamo noi. Noi persone, che si mettono in relazione attraverso un mezzo. In qualche modo dobbiamo imparare a sentirci confortevoli in questo tipo di relazioni, come del resto cerchiamo di fare nella vita reale no? Tutti tendiamo al benessere relazionale: abbiamo attorno una rete fatta di affetti, relazioni – relazioni anche di comodo, a volte – oppure colleghi di lavoro, compagni di scuola. È una struttura “a cipolla” dove non tutti i rapporti hanno la stessa rilevanza.
Ma cosa succede quando si aggiunge un’altra dimensione relazionale, quella dei social media? Già non è facile gestirne una.
Passiamo anni della nostra vita a imparare a gestire le relazioni intorno a noi, dall’asilo in poi: ma il punto è che oggi abbiamo acquisito una nuova dimensione relazionale e dobbiamo non solo imparare a usarla, ma anche trarne le parti più soddisfacenti. Perché stare in rete può essere molto molto soddisfacente, anche se al momento tendiamo a vederlo spesso come un problema.
È una questione di parole e di come le usiamo: Claudio Giunta ci diceva che scrivere bene diventerà un hobby di lusso, come saper suonare il pianoforte. Secondo voi?
[VG] La penso in maniera un po’ diversa. Scrivere bene alla fine è sempre stato un lusso. C’è spesso in giro questa idea che una volta si scrivesse meglio. In realtà penso che la grossa differenza tra ora e una volta è che un tempo si leggeva molto meno un particolare tipo di scrittura, quello dei semicolti, o se vogliamo girarla in altro modo, la scrittura popolare. Pensa alle scritte sui muri, alle liste della spesa. Adesso sui social vediamo molti più esempi di quella scrittura lì.
L’idea che ci fosse un Eldorado in cui tutti sapevano scrivere la trovo sbagliata, penso che scrivere bene sia sempre stato un privilegio di pochi.
I nuovi populismi di destra – da Trump a Salvini – usano il linguaggio con violenza. Come si fa a contrastare quel tipo di racconto, senza diventare a nostra volta verbalmente aggressivi?
[BM] Guarda, uscirei dello specifico caso dei populismi di destra, perché è qualcosa che succede anche in altri scenari umani. L’illusione di poter rispondere alla polarizzazione con un’altra polarizzazione altrettanto violenta, però, non funziona. Cerco di spiegarmi: se si gioca alla comunicazione che fa leva sulle emozioni, alla fine vinceranno sempre le emozioni più brutali e violente. L’illusione dei “buoni” di poter essere altrettanto violenti dei cattivi – ma nel bene – non può funzionare. Faccio un esempio forse un po’ forte: alla fine il bambino migrante morto suscita un’emozione, magari anche di reazione e di solidarietà, ma purtroppo alla fine chi gioca al ribasso riesce a far vincere l’emozione di chi vuole difendere i propri figli.
Bruno Mastroianni © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Se devi scegliere tra un cattivo vero e un buono che fa il cattivo, scegli l’originale
[BM] Esatto: vince l’emozione più primitiva e brutale. Che fare? Per me serve uscire da una polarizzazione binaria, non essere solo il “contro” di quel discorso, ma ricostruire un’altra cornice. Questo non è facile. Nei dibattiti e nei discorsi pubblici una delle cose più importanti è non rimanere nella cornice che ha creato l’altro con i suoi temi, il suo modo di parlare, il suo linguaggio: ma fare un reframing, riportare la discussione altrove. Non penso che oggi in Italia ci sia qualcuno con la forza culturale, politica e soprattutto la credibilità per compiere un’operazione di questo tipo.
Le fake news sono sempre esistite: temi più la loro diffusione o la mancanza di strumenti per decifrare una notizia come falsa?
[BM] In questo momento il termine fake news non ci aiuta più molto, ormai viene solo usato retoricamente per sconfessare il discorso dell’altro: Trump accusa i giornali di produrre fake news. I media accusano Trump di fake news.
Ma anche nei discorsi da bar ormai la gente ti dice “Questa è una fake news!”. È molto meglio chiamare quel fenomeno disordine informativo. Proprio perché siamo iperconnessi, siamo immersi in un disordine informativo, dove le informazioni hanno bisogno di essere messe in ordine, criticate, confrontate: e questa non è solo una capacità tecnica, è una questione culturale. Sai dove la si vede in azione questa capacità di fare ordine nel disordine? Quando si fanno acquisti online. Quando una persona deve prenotare, o scegliere un ristorante, o una vacanza, diventa bravissimo a non farsi fregare.
Confronta, ci pensa, legge i commenti…
[BM] Perché deve spendere dei soldi. E culturalmente il capitalismo ci ha insegnato che i soldi contano, e quindi quando compriamo qualcosa non ci dobbiamo fare fregare. Il punto è che dobbiamo capire che quando noi aderiamo a una certa notizia e quella informazione non l’abbiamo controllata, stiamo dando molto più di 50 euro, stiamo accettando che quella parte di realtà la vediamo con quella descrizione lì. Dovremmo fare la stessa fatica che facciamo quando prenotiamo la vacanza online.
Vera Gheno e Bruno Mastroianni © Vito Maria Grattacaso / LUZ
La mia impressione è che i più giovani siano più svegli, mentre sia la fascia di età tra i 40 e i 60 anni ad abboccare alla qualsiasi. Sono abituati ad altri codici, abituati a “è scritto sul giornale”, mentre adesso “è scritto su Facebook”?
[BM] Più o meno è così. Certo, poi non basta, anche i giovani ci cascano forte, però hai ragione, la fascia più colpita è direi tra i 40 e i 60, quella fascia intermedia che ha vissuto nello scenario precedente, dove c’era un dibattito molto più selezionato.
Tutti i giornalisti, anche quando affrontavano dibattiti aspri, erano tra persone competenti; in tv e sui giornali ci poteva anche essere il fenomeno da baraccone come interlocutore, ma tutto sommato erano dibattiti civili.
Oggi online il dibattito avviene con persone spesso incompetenti, che non vogliono saperne, con persone che non hanno grandi capacità riflessive e quindi diventa molto più impegnativo. Molto più confuso. Questo mette in crisi sia i competenti che chi dal basso è dentro a questo marasma.
Come se ne esce?
[BM] Questa cosa la deve fare la scuola. Sulla scuola bisogna puntare molto, o non se ne esce. Su questa capacità di vivere in un mondo interconnesso ci giochiamo l’inclusione e l’esclusione sociale. La capacità di discernere se un’informazione è attendibile significa essere inclusi o esclusi, saper decidere. La scuola ha un enorme compito, ma se poi a scuola finisce che l’unica strategia è spegnere lo smartphone o il pc, siamo rovinati.
Vera Gheno © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Siamo arrivati a un punto in cui “la verità non conta”, almeno sui social media: sei d’accordo?
[BM] Sì. Diciamo che secondo me però non siamo arrivati a un punto di non ritorno, non è che ricordo un’epoca in cui la verità era la prima preoccupazione degli esseri umani. Da sempre l’uomo ha fatto fatica ad accettare che spesso la realtà va contro i suoi gusti, le sue tendenze, le sue emozioni. Oggi questo effetto lo vediamo in maniera molto più esplicita perché siamo molto più interconnessi di prima.
È anche cambiato il modo con cui ci informiamo
[BM] Un tempo il dibattito pubblico era molto più controllato. Bisognava essere invitati in un dibattito, essere intervistati da un giornale: oggi il dibattito pubblico ha un accesso libero, chiunque dice la sua, più o meno ascoltato, non c’è più una selezione.
Tendiamo a prendere in considerazione tutto quello che ci compiace e facciamo fatica a prendere in considerazione quello che non ci piace.
C’è chi dice: la democrazia non può sopravvivere a Facebook
[BM] Invece sì, assolutamente sì. Tornando alla prima risposta di Vera, facciamo spesso l’errore di aspettare che facciano qualcosa i governi, i grandi player della tecnologia, o aspettiamo che ci sia qualcuno che ci aiuti a gestire questa pluralità di dibattito. È vero che ci vuole questo intervento dall’alto, ma nel frattempo noi dobbiamo anche dotare l’utente finale della capacità di intervenire in questo scenario con consapevolezza. Nella tasca dove c’è lo smartphone dobbiamo mettere anche le competenze di ogni singolo cittadino per gestire bene questa tecnologia: usarla per la libertà, non per essere limitato nelle libertà. Oggi la conoscenza determina il grado di libertà.
Vi piace come è diventato internet?
[VG] Mi piace come sfida. Quando eravamo pochi ma buoni era molto più comodo, era anche molto più ordinato. Adesso è un gran caos, ma in cui comunque si possono trovare un sacco di cose anche belle.
[BM] Sì, a me piace come è diventato internet, la cosa che mi piace di più anche se è la più impegnativa, è che ogni volta che qualcuno propone un contenuto si trova dissenso, ribellioni, persone che non sono d’accordo. E la cosa bella è che pur esponendo quel dissenso in modo scomposto e inadeguato, le persone ci prendono. Il dissenso anche quando è scomposto, tutto sommato arriva al punto.
Che fatica, però
[BM] È molto faticoso da gestire, ma a me piace molto questa fine della conferenza colta, con il professore che parla e tutti zitti: no, qui il professore parla e poi uno si alza e dice “Lei è noioso” oppure “Non si capisce”. È vero che il dibattito così è più duro e può dare fastidio, ma può anche essere molto più proficuo e interessante da fare.