Gli invisibili del mondo dell’arte e della cultura: parla Paola Farinetti.
“Abbiamo un occhio di attenzione per i nostri artisti, che ci fanno tanto divertire e ci fanno tanto appassionare”, queste le parole che Giuseppe Conte utilizzò per raccontare un’industria che da mesi stava lottando contro la totale assenza di sostegno da parte dello Stato. Da maggio 2020 a oggi non è cambiato molto: cinema, teatri, eventi dal vivo sono sospesi fino a data da destinarsi.
Cosa sta accadendo dietro le quinte? Come si sta o non si sta organizzando uno dei settori più importanti del nostro Paese? Ne abbiamo parlato con Paola Farinetti direttore della Fondazione E. di Mirafiore e anima di Produzioni Fuorivia che ha fondato ormai più di 20 anni fa. Da molto tempo Paola lavora nel mondo dell’organizzazione degli eventi e nella produzione di spettacoli teatrali e musicali, l’abbiamo raggiunta telefonicamente per capire cosa sta succedendo al settore che da sempre educa, forma e ispira il futuro.
Prima domanda alla David Letterman, come stai? Ma soprattutto come stanno andando le cose con Produzioni Fuorivia?
Mah, è ancora tutto fermo. Non è facile tenere la barra dritta in questa situazione, mantenere l’equilibrio.
Parliamo di Produzioni Fuorivia
Produzioni Fuorivia nasce 24 anni fa, ha una storia lunga, soprattutto come produzione di spettacoli teatro-musicali e di dischi. Già all’epoca era un po’ un’anomalia, siamo stati i primi in Italia a fare spettacoli teatrali d’intreccio in cui si mescolavano i linguaggi e personaggi della letteratura, della musica, del teatro. Adesso è abituale vedere scrittori in scena, però alla fine degli anni ’90 funzionava tutto per compartimenti stagni: nei teatri stabili si faceva la prosa classica, i concerti venivano fatti nei luoghi deputati e non c’era uno scambio.
In questa situazione mutata, negli ultimi quattro anni noi di Produzioni Fuorivia abbiamo un po’ cambiato il tiro, ci siamo dedicati all’organizzazione di eventi e alla programmazione culturale.
© Isabella De Maddalena / LUZ
Per esempio l’Attraverso festival
Esatto, Attraverso, che organizzo con i miei amici di Hiroshima Mon Amour, si svolge in un’area enorme, circa 180 km nel Piemonte meridionale e attraversa, appunto, quattro territori: Langhe, Monferrato, Roero e Appennino Piemontese. Prima del covid il festival si svolgeva in più di 30 comuni del territorio, l’anno scorso abbiamo dovuto ridurre il numero delle piazze a circa 12, facendo più spettacoli nello stesso luogo, cercando di ammortizzare così i costi di allestimento. Abbiamo dovuto ridurre le aree e le capienze per rispettare le normative anti-covid.
Questo è un festival che è cresciuto moltissimo nel corso degli anni, ma la scorsa estate, per forza, c’è stata una diminuzione degli spettatori in termini assoluti, ma non relativi. Voglio dire che con il distanziamento e aree fortemente ridotte in termini di capienza, pur raggiungendo sempre il sold out ed una grande partecipazione, anche emotiva, del pubblico i numeri si sono drasticamente ridimensionati.
Ecco perché per noi è stato comunque un grande successo. L’atmosfera è stata speciale perché le persone avevano voglia di stare fuori, c’era molta euforia.
Siamo stati tutti coinvolti dall’entusiasmo, noi, il pubblico e gli artisti.
Per esempio Nicolò Fabi ha deciso di girare da solo e a prezzi calmierati pur di tornare in scena, era un modo per far lavorare un sistema e dare un segnale, anche Paolo Fresu è uno che ci ha tenuto molto a far qualcosa anche in quella situazione d’emergenza.
Insomma c’era un’euforia che adesso, purtroppo, a un anno di distanza, non sento più.
Come mai, secondo te?
Perché il primo lockdown, che è stato terribile, è stato preso anche un po’ come un gioco: la gente cantava alle finestre, si appendevano gli striscioni ai balconi e c’era molta speranza, adesso sappiamo che questa cosa potenzialmente potrebbe non finire mai. Ci siamo entusiasmati con il vaccino, ma dopo poche settimane sono iniziati i problemi nella distribuzione delle dosi e il morale è di nuovo crollato. Sto organizzando in questi giorni l’Attraverso festival 2021, mi confronto quotidianamente con gli artisti e gli amministratori e tutti, al momento, sono molto cauti.
Ormai domina l’incertezza, c’è difficoltà a dire sì e di conseguenza a programmare in maniera definitiva, non sai cosa potrà capitarti il giorno dopo.
Penso alla polemica sugli impianti da sci, chiusi ventiquattro ore prima della riapertura, quando capitano queste cose per diverse volte, ti fermi e necessariamente l’entusiasmo cala.
© Gerard Uferas / LUZ
Nel mondo dello spettacolo però c’è un mondo, se si ferma chi è in prima linea crolla un sistema “invisibile” ma fondamentale
Sì, infatti sono un po’ arrabbiata perché gli artisti di prima fascia, quelli importanti e grandi, sono vincolati alle agenzie, che pur di non abbassare i prezzi preferiscono tenerli fermi e non farli girare. Ci sono stati una serie di artisti che, anche volendo, non sono riusciti a imporsi. La scorsa estate in Assomusica – Associazione Italiana Organizzatori e Produttori Spettacoli di Musica dal vivo – c’è stata una spaccatura forte, alcuni hanno battuto il pugno sul tavolo e hanno fatto di tutto pur di girare.
Nonostante questo, mi rattrista il fatto che proprio quelli che non ne hanno bisogno, siano stati per lo più fermi, mentre, dal mio punto di vista, avrebbero dovuto mettersi a disposizione di un sistema. Non dimentichiamoci che dietro uno spettacolo ci sono i tecnici, i facchini, gli elettricisti, le maschere, c’è un mondo enorme.
Inoltre il mondo della cultura e degli eventi aiuta tantissimo il turismo. Se si ferma la cultura si danneggia un universo molto più ampio, perché la gente che si muove per un evento fa tante altre cose. Fermo restando che il virus c’è, e bisogna stare attenti, non si capisce perché i centri commerciali sono stati aperti e i teatri e i cinema no.
In una delle newsletter di Domani, Paola Dubini, parlando di lavoratori del mondo dello spettacolo, scrive: “Dobbiamo alle organizzazioni culturali e a chi ci lavora la costruzione dei nostri immaginari. E del nostro futuro”. Perché in Italia si pensa ancora che la cultura sia solo un passatempo?
Io provocatoriamente avevo detto che i primi a dover essere vaccinati dovevano essere i ragazzi, proprio perché oggi soffriamo di una grave mancanza di futuro e loro, da un punto di vista anagrafico, lo rappresentano. Anche per egoismo io mi sentirei più tranquilla se fossero loro ad essere vaccinati per primi. Perché abbiamo bisogno della loro energia, del loro sguardo sul domani.
L’arte, quella che ti insegna a capire il presente, a immaginare il futuro e a ricordare nel modo giusto il passato, è il punto in cui convergono le tre dimensioni della nostra vita ed è fondamentale.
Quand’anche non producesse reddito, ne abbiamo bisogno per costruirci come esseri umani, per avere uno spessore. Uno Stato che non investe in cultura è uno Stato che non investe nel futuro. Quando però si fanno questi discorsi si rischia di essere accusati di retorica, quindi abbiamo smesso di farli e abbiamo iniziato a parlare di cose più concrete: di numeri e di cifre per far capire quanto siamo importanti.
© Isabella De Maddalena / LUZ
Non potrà però essere solo colpa degli altri: cosa manca ai lavoratori del mondo dello spettacolo, cosa non sta funzionando nel loro modo di farsi sentire?
Noi siamo una categoria molto particolare e diversa rispetto alle altre categorie produttive, perché alcuni sono invisibili – come molti artisti che suonano nei club che in questo periodo se la stanno vedendo bruttissima. Ci sono storie tremende di persone costrette ad andare alla Caritas per mangiare. Poi il teatro ha delle regole, la musica ne ha delle altre, ogni categoria e genere segue strade diverse. Noi non siamo una lobby e non siamo così uniti da fare un gruppo di pressione là dove bisognerebbe premere.
Le chiese sono aperte e i teatri no, evidentemente la lobby del Vaticano è più forte della nostra, concetto lapalissiano però la differenza sta lì.
Ci siamo tutti emozionati quando Draghi, nel suo discorso di approvazione alla Camera, ha citato la parola “teatro” – pensa che dal giorno dopo sono riprese le telefonate -, perché ormai, da mesi, non se ne parlava più. Purtroppo, però, è anche vero che per alcuni è più conveniente tenere chiuso che aperto, nel nostro settore ognuno pensa un po’ al proprio personale interesse, non siamo mai stati compatti. La fetta dedicata alla cultura in tutte le sue articolazioni in Italia è sempre stata piccola, eravamo lì a spartirci il poco e ognuno pensava per sé. E neppure adesso, lo dico con tristezza, siamo per davvero più uniti e più forti. È evidente che il nostro settore non è considerato alla stregua degli altri, basti pensare che Conte quando gli è stato fatto notare che non aveva mai parlato di teatro e spettacolo, ha detto: “i nostri artisti, che ci fanno tanto divertire”. Per carità, per me è un onore far divertire, però quel modo di parlare nasconde un modo di pensare. L’idea che questo settore non sia importante come gli altri e non porti profitto al Paese. In realtà, nell’ultimo report della fondazione Symbola, il settore cultura rappresenta il 6,8% del PIL italiano, non è poca roba.
© Gerard Uferas / LUZ
Parlando di eventi digitali, che ne pensi? Non potranno sicuramente mai sostituire la fruizione dal vivo ma avranno secondo te possibilità di diventare un introito importante per le casse del mondo della musica e dello spettacolo?
Noi ne abbiamo fatti alcuni con la Fondazione Mirafiore, l’ultimo è quello sull’ hate speech con Federico Faloppa, linguista di fama mondiale e professore all’Università di Reading, in Gran Bretagna. Ci ho tenuto molto a farlo perché è un tema attualissimo e bipartisan, ne vengono colpiti tutti, dalla Boldrini alla Meloni, ci fa capire che è un morbo che dilaga e che non ha colore né inclinazione politica.
Allo stesso tempo, però, mi vien da dire che di eventi digitali non ne possiamo più, perché lavoriamo tantissimo al computer ed è venuta meno la voglia di passarci anche il tempo libero.
Io non ci credo tanto, anche se è molto difficile avere un pensiero finito quando si è immersi nella contemporaneità. Dovrà essere una cosa che implicherà riflessione anche sui linguaggi, perché non basta riprendere tutto e mandare online. Non è la stessa cosa, bisognerà fare delle produzioni specifiche indirizzate a quei canali. Il teatro, per esempio, subisce una deformazione forte, si passa dalla tridimensionalità alla bidimensionalità, se sono seduto a teatro guardo quello che voglio, mi concentro su un attore o su un particolare della scenografia, faccio io la regia con lo sguardo. Se ho una ripresa piatta è inguardabile, se c’è una regia lo sguardo sullo spettacolo è condizionato, quindi serve un modo per parlare e interagire con quel linguaggio, non basta semplicemente riprendere un evento dal vivo. Ho visto una cosa bellissima che ha fatto Liam Gallagher sul Tamigi, era emozionante e si percepiva che era una cosa pensata per quel taglio, arrivava la verità e il fatto che lui sentisse molto quello che stava facendo. Un’altra riflessione che dobbiamo fare è sulla necessità del prodotto culturale, non è che tutto è necessario, a volte immettiamo sul mercato troppa roba. Io me lo chiedo spesso quando produco qualcosa.
Infine, non è così scontato il trasferimento sul digitale anche perché bisogna ragionare sui costi di questi prodotti. Nella prima fase del lockdown abbiamo malamente abituato il pubblico ad avere molte cose gratis, per generosità, per necessità artistica interiore o per non sentirsi troppo soli, ma questa cosa sul lungo periodo non farà bene.
© Isabella De Maddalena / LUZ
A conti fatti è un anno che questa industria è quasi del tutto ferma, cosa ci vorrà per ripartire?
Ma guarda siamo tutti molto provati da questo avanti e indietro, da questi continui slittamenti e chiusure improvvise. È difficile dire cosa ci vorrà per ripartire e cosa accadrà in futuro, non credo che saremo migliori di prima come ci dicevamo nel marzo 2020, però credo sia necessario essere ottimisti, perché ad essere pessimisti non si guadagna niente. Credo che sia più conveniente anche per la salute mentale vederla positivamente.
Il teatro esiste da quattromila anni, forse anche da prima, non sarà un virus a fermarlo, è una necessità imprescindibile dell’uomo.
L’essere umano ha bisogno dell’arte per immaginare il futuro e per capire meglio il presente. Non potrà venire meno, non so bene in che forma.
Fa parte della nostra natura dimenticare il peggio, anche se diciamo che dobbiamo imparare dal passato tendiamo a scordare, però è certo che ricominceremo. Non so ancora esattamente come, ma nel dubbio preferisco essere ottimista.
Foto di copertina © Paolo Soriani