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La qualità dell’informazione

Crisi, fake news e Covid-19: Luca Sofri racconta le nuove sfide del giornalismo.

di Cosimo Vestito

La crisi del giornalismo, la sostenibilità economica dell’industria dei media nell’era di Internet e la diffusione delle fake news sono alcune sfide che deve affrontare l’informazione contemporanea. Molto spesso si cade nell’equivoco di considerare questi temi come materia di discussione e analisi per soli addetti ai lavori. Ne abbiamo parlato con Luca Sofri, direttore del quotidiano online Il Post, capendo che in realtà è proprio dalla risoluzione e dallo sviluppo di questi fenomeni che dipende il futuro delle nostre società. 

In Italia, come in tutto il mondo, i giornali si trovano in condizioni di straordinarie difficoltà economiche. È una crisi che viene da lontano e che sembra non potersi risolvere secondo le normali dinamiche del mercato. Tu sei favorevole a un intervento dello Stato?
Sono favorevole al sostegno statale all’informazione, perché penso che essa costituisca un servizio pubblico essenziale. Lo Stato si fa già carico di altri servizi pubblici essenziali e, nelle parti in cui non lo fa, sovvenziona i privati per aiutarli a erogare quel servizio. È ciò che avviene nei trasporti, nella sanità e nell’istruzione. Questo principio avrebbe dunque senso anche per quanto riguarda l’informazione, che è un pezzo importantissimo del funzionamento corretto delle democrazie. 

 

L’informazione, sostanzialmente, è il prolungamento dell’istruzione scolastica nell’età adulta: la democrazia infatti funziona se si va a votare informati. 

 

I finanziamenti pubblici sono stati accantonati per molto tempo perché, a differenza degli altri, il mercato dell’informazione è sempre stato economicamente solido e in grado di sostenersi da solo. Questa autonomia però è venuta meno e il sistema negli ultimi due decenni è andato in crisi; da qui, in teoria, il bisogno di un intervento. Ma questo ragionamento sottende una contraddizione: in determinati settori, come la sanità o i trasporti, possiamo stabilire e condividere criteri di qualità del servizio pubblico, che non possono essere stabiliti per l’informazione. Gli standard di qualità dell’erogazione dell’informazione non sono condivisi e condivisibili, quindi nei fatti non si possono sancire.
Avviene anche per la natura stessa dell’informazione, perché la qualità in questo caso è un concetto vago. In tutto il mondo si sta riflettendo sull’opportunità di vincolare questi contributi statali a criteri che possano favorire il miglioramento della qualità dell’informazione – ad esempio il ricambio generazionale, l’accoglimento di professionalità più giovani e l’innovazione tecnologica.

 

intervista a Luca Sofri

© Gaetan Bally / KEYSTONE / LUZ

 

Con la contrazione delle vendite e degli introiti pubblicitari, il tradizionale modello di business di quotidiani e riviste è stato gravemente danneggiato. Stanno però emergendo nuove e interessanti fonti alternative di sostentamento, come gli abbonamenti, le membership, i link di affiliazione e gli eventi. Secondo te possono funzionare?
Dipende. Abbiamo capito che non esiste una soluzione universale per un nuovo modello di business. I due modelli di riferimento principali sono: la pubblicità e i lettori paganti. Tuttavia la pubblicità è molto in crisi, pur rimanendo importantissima per le testate; mentre il modello dei lettori è stato spianato per un lungo tempo, ma da qualche anno sta tornando un investimento interessante, anche se con opportunità più piccole di un tempo.

 

Ad ogni modo, tutti i possibili metodi per generare ricavi sono molto legati al tipo di prodotto giornalistico che si fa, alle competenze e alle tipologie di lettori, e al suo contesto. 

 

Bisogna diversificare, ogni testata deve capire quali opportunità ha rispetto a quello che fa e così saper sfruttare i suoi asset.

Credi che, alla luce delle sue sofferenze, la stampa oggi rischi di perdere ancora di più la sua autonomia dalle influenze delle grandi aziende inserzioniste?
L’autonomia non c’è mai stata, ma c’è da dire che i cedimenti sono maggiori dove le difficoltà economiche sono più pesanti. È una questione su cui, a mio avviso, non bisogna essere particolarmente severi e moralisti, d’altronde le difficoltà economiche vanno affrontate in qualche modo. Il problema si verifica quando si abbassano gli standard di trasparenza e credibilità nei confronti dei lettori, ecco, quello non è un investimento di lungo termine e di sagge vedute.

 

intervista a Luca Sofri

© Christian Beutler / KEYSTONE / LUZ

 

In questi ultimi anni il tema delle fake news ha assunto un ruolo centrale nel dibattito sull’informazione e il giornalismo. Generalmente, in maniera superficiale si imputano le responsabilità ai social network e alle poco affidabili fonti di informazione online. Cosa ne pensi di questa lettura?
Non la condivido assolutamente. In Italia non c’è mai stata una tradizione di grande attenzione all’accuratezza come in altri Paesi con cui ci confrontiamo normalmente, come la Francia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Germania. Lì ci sono grandi testate autorevoli che, pur facendo anche loro degli sbagli, continuano ad avere – almeno come principio – dei criteri di accuratezza e affidabilità con cui si contrappongono alle fonti meno attendibili.

 

In Italia, storicamente, non c’è mai stata quella separazione tra testate serie e autorevoli e giornalismo popolare da tabloid, anche se alcuni giornali stanno provando a evidenziarla. Di conseguenza, i giornali italiani hanno sempre contenuto le parti serie e autorevoli e le parti più allarmistiche, inaffidabili e cialtrone, creando in generale una cultura del rigore e dell’informazione media più bassa. 

 

È vero che non ha mai raggiunto i livelli criminali e teppistici di alcuni tabloid americani o inglesi o tedeschi, ma al tempo stesso ha molto abbassato l’autorevolezza e la serietà dei giornali ritenuti “seri”. Il risultato è che oggi i giornali italiani fanno un po’ fatica a proporsi come alternativa affidabile alle fake news. Alla fine, gran parte dell’informazione, anche quella inaffidabile e inaccurata, che circola sui social origina nei giornali tradizionali. Poi, certo, c’è chi in malafede politica o ideologica produce sistematicamente balle sui social, ma spesso trova la sponda nei media tradizionali.

Le redazioni dei più importanti giornali italiani sono generalmente considerate conservatrici, tradizionaliste e avverse al cambiamento. Secondo te c’è un problema anagrafico e di genere?
È un problema che riguarda ogni ambito, e quindi anche l’informazione.

 

In Italia vige un contesto conservatore e tradizionalista, poco incline all’innovazione per ragioni generazionali e di cultura. 

 

Questo discorso si replica se si guarda a chi fa i giornali e a chi decide come vengono fatti (insomma direttori, editori ecc.): persone con un’età media alta, con culture e formazioni novecentesche e legate a idee e modelli superati. Nessun direttore è cresciuto o ha formato la propria cultura nell’era dell’innovazione tecnologica. Il modo di fare le cose e vedere il mondo sono ancora legati al secolo scorso, ed è una condizione che viene anche tramandata ai giovani. Ma il problema generazionale non si affronta così su due piedi, ed è un problema che riguarda anche i lettori.

 

intervista a Luca Sofri

© Nina Berman / NOOR / LUZ

 

Voi de Il Post avete rivoluzionato in un certo senso il registro giornalistico italiano, utilizzando una lingua lineare, limpida ed esplicativa, con una grande attenzione alla contestualizzazione e alla completezza. Perché questa scelta?
Perché ha senso fare le cose che non ci sono e non ha nessun senso replicare quello che c’è già, che sia buono o cattivo, per una semplice questione di domanda e offerta. Abbiamo fatto Il Post avendo l’impressione che la scrittura del giornalismo italiano desse moltissimo per scontato, che usasse un linguaggio artificioso e prefabbricato del tutto diverso da quello che dovremmo parlare. Questo limitava molto la chiarezza delle spiegazioni. Poco contesto, poca cornice e con una lingua di plastica. Per questo abbiamo provato a fare una cosa che in questo senso non c’era.

 

In realtà le cose che facciamo sono straordinariamente tradizionali, sono diventate innovative pur non essendolo laddove prima non c’erano. I primi interessati a questo tipo di approccio sono i lettori più giovani, ossia quelli che facevano più fatica a leggere i giornali tradizionali.

 

Sempre a proposito di lingua, come viene raccontata secondo te la cronaca, in particolare quella nera, sui maggiori quotidiani e siti di news italiani? Molto spesso titoli e testi degli articoli sono criticati per i toni e per le ricostruzioni.
È una questione di esattezza, correttezza e descrizione della realtà. Nelle redazioni tradizionali c’è un’idea – non del tutto infondata – che il sensazionalismo, l’allarmismo e la morbosità paghino e siano più interessanti per i lettori.
Questo è abbastanza vero sia perché siamo umani, sia perché è un circolo vizioso che si autoalimenta, il punto è: chi deve interrompere questo circolo? Secondo me dovrebbe interromperlo chi ha maggior potere, quindi chi fa i giornali, ma questo potere è molto diminuito, per le ragioni economiche di cui abbiamo parlato finora. Perciò se il tuo potere dipende da una salute economica basata su click, visualizzazioni e pubblicità sul tuo giornale tutto questo si lega alle cose su cui la gente clicca di più. Ma noi ci troviamo in una fase, con una parziale traslazione dai ricavi pubblicitari agli abbonamenti – o altre fonti, che potrebbe far diminuire il valore dei click, per far acquisire più forza ai valori per cui le persone sono disposte a pagare direttamente i giornali – oltre che sintonia e senso di appartenenza.

 

intervista a Luca Sofri

© Christian Beutler / KEYSTONE / LUZ

 

Ultimamente, si sta animando il confronto tra Google e Facebook e le testate giornalistiche circa la riproduzione degli articoli. È giusto riequilibrare in qualche modo la relazione tra i giornali e le grandi piattaforme, offrendo maggiori tutele e compensazioni alle aziende giornalistiche?
Ogni volta che un argomento viene posto in termini etici e di giustizia salta tutto, perché queste argomentazioni sono ipocrite. Le cose vanno messe in termini di mercato: i giornali e le testate che pretendono più soldi da Google per l’utilizzo che Google fa dei loro contenuti, sono in grado di fare una trattativa? Sono in grado di rimuovere i loro contenuti se non sono soddisfatti? Mi pare di no. L’equilibrio attuale, che sicuramente favorisce molto le grandi piattaforme, è figlio del fatto che queste hanno avuto grandi intuizioni contemporanee e innovative che dall’altra parte non ci sono state, e ne stanno approfittando.
Dopodiché c’è un problema di sopravvivenza dell’informazione che lo Stato e le istituzioni pubbliche devono affrontare.

 

Non mi convince molto il vittimismo dei giornali nei confronti delle piattaforme, anche perché sono i primi ad approfittare dei loro servizi. 

 

Il problema delle compagnie tecnologiche è il loro monopolio, che non permette di far svolgere le trattative in un normale sistema di mercato e non consente alle testate di sottrarsi a questo meccanismo. Non ho risposte, è una condizione anomala e senza precedenti, i canoni normali con cui affrontiamo queste questioni non la risolvono. 

L’atteggiamento retorico e le argomentazioni dei populisti hanno messo in difficoltà il giornalismo in questi ultimi anni. Secondo te la stampa italiana come li ha gestiti?
Il grosso dell’informazione tradizionale italiana ha in un certo senso sostenuto e incentivato, anche inconsapevolmente, le demagogie e i qualunquismi. Credo che la nostra stampa faccia molto i suoi interessi, legati proprio a sensazionalismo, allarmismo, paura e polemiche. A un certo punto i giornali si sono mossi molto per alzare l’asticella dell’antipolitica, ma poi questa cosa è scappata di mano, o meglio è stata presa di mano da qualcuno che l’ha gestita in altri modi. Tutte le cose che ricadono dentro provocazione, zizzania, polemica e attacco verso qualcuno sono format giornalistici che precedono le intenzioni politiche. Poi si sa che i giornali funzionano quando fanno opposizione ai governi e non quando li sostengono.

 

intervista a Luca Sofri

© Mohamad Madadi / LUZ

 

La pandemia si è dimostrata un fenomeno difficile anche da comprendere e spiegare. Come credi l’abbiano raccontata i giornali nel nostro Paese?
Ci sono stati molti alti e bassi. Le aspettative in una crisi di questa dimensione dovrebbero essere molto alte, quindi non credo si possano assolvere le testate e il lavoro giornalistico dando un voto di 6 o 6½. Se anche fosse, sarebbe troppo basso rispetto al ruolo dell’informazione in un anno come questo. In Italia soprattutto, mi sembra che ci sia stato grande spaesamento e inadeguatezza da parte dell’informazione giornalistica rispetto a temi, approcci e meccanismi che non potevano essere inquadrati negli ambiti delle certezze e delle polemiche.

 

È stato un anno in cui c’era bisogno di un’informazione prudente, che tenesse conto dell’incertezza e della poca chiarezza delle cose, invece mi sembra che i media da noi abbiano voluto continuare a fornire certezze perentorie e strillate. 

 

Il risultato è stato affollare di informazioni parziali e contraddittorie le pagine dei giornali, presentandole a volte come definitive. Con le conseguenze che conosciamo: perdita di credibilità e la cosiddetta infodemia.

Quali prospettive future vedi per il giornalismo?
I giornali, ma in generale tutti i trasmettitori di informazioni, stanno coordinando e condividendo i loro sforzi per migliorare affidabilità e accuratezza del servizio pubblico dell’informazione, con l’obiettivo di raggiungere una maggiore crescita culturale. L’elemento più rassicurante e promettente è che questo lavoro lo stanno svolgendo in tanti, facendo sperare che da ciascuno di questi impegni cresca qualcosa di più grande capace di arginare il timore di tutti, ovvero un paludamento del nostro progresso civile.

 

Cover credits courtesy of Luca Sofri

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