La critica e il gusto, gli algoritmi di Netflix, i film da ricordare e da dimenticare: cosa succede al cinema secondo Paolo Mereghetti, il più apprezzato critico italiano
Paolo Mereghetti, milanese di stanza a Porta Genova, classe 1949, critico cinematografico. Dal 1993 a oggi è arrivato alla dodicesima edizione del più apprezzato dizionario dei film, “il Mereghetti” che da tempo porta direttamente il suo cognome, pubblicato da Baldini+Castoldi.
Consulente per la Mostra del cinema di Venezia nelle edizioni dirette da Lizzani, Rondi e Barbera, sul Corriere della Sera e Io Donna racconta da decenni il cinema italiano e non, i grandi festival, e tutto quello che funziona e non funziona nella settima arte.
Già nel 2012 aveva notato come “il disprezzo di qualità e intelligenza rovina il paese quanto un declassamento di Moody’s”, e qualcuno aveva chiosato “rincoglioniti e fieri”: Mereghetti ci aveva visto giusto e oggi l’Italia è un immenso prequel di Idiocracy. Forse è meglio andare al cinema.
“Il Mereghetti” è arrivato alle dodicesima edizione: com’è cambiato?
Il dizionario è cambiato perché è cresciuto: il primo volume del 1993 aveva circa 10mila schede, quest’anno siamo quasi a 35mila. E non soltanto è aumentato il numero ma è aumentata anche la lunghezza delle schede, più complesse, più ricche.
È cambiato anche lei in questi anni?
Io come sono cambiato? Spero di essere un pochettino maturato.
L’idea di fondo che ho del cinema è sempre quella: i film sono finestre aperte sul mondo e mi aiutano a capirlo meglio.
È l’idea che avevo in mente allora e penso sia valida ancora adesso. Penso di avere maturato un po’ i miei metodi critici ed essere più attento, forse, alle qualità di un film. E poi ho visto più film…
Mai tenuto il conto?
No, non sono uno di quelli che tengono il conto, che scrivono tutti i film che hanno visto! Né da giovane né adesso, assolutamente no.
Un dizionario del cinema è un lavoro di squadra: andate sempre d’accordo?
No! Però ho selezionato le persone che lavorano con me con una certa affinità critica. È fuori discussione. E poi se devono collaborare al dizionario devono sottostare ad alcune regole: una delle quali, la principale, è la chiarezza e la semplicità di scrittura. Sono aboliti i giochi di parole, le dimostrazioni delle proprie capacità, far vedere agli altri quanto si è bravi.
Altre doti per collaborare?
Bisogna essere molto precisi, molto ficcanti, molto attenti alle caratteristiche specifiche del film, però anche raccontarlo con un linguaggio piano che non si compiace di parolone astruse. Poi naturalmente l’ultima parola sulla scheda spetta a me.
Paolo Mereghetti © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Un film su cui avete litigato?
I film di Sergio Leone sono quelli su cui c’è dibattito, però lì vinco sempre io: sono convinto che Leone non sia il maestro che tutti dicono. È un bravissimo regista, ha fatto dei film dal punto di vista spettacolare molto piacevoli, però come dire, il western – anche quello italiano – ha altre cose migliori. Recentemente abbiamo discusso su Allied, il film di Zemeckis con Brad Pitt e Marion Cotillard, questo gioco di spie… a me sembrava un film piuttosto di rimessa, non particolarmente interessante.
Netflix personalizza i contenuti in base ai nostri gusti e ci prende: tra vent’anni serviranno ancora i critici?
Io penso di sì! Nel senso che penso servano adesso e serviranno anche tra vent’anni. Il gusto è una cosa, l’analisi critica è un’altra. Uno ha il diritto di dire che un film gli piace o non gli piace, sacrosanto. Da qui a trasformare il “mi piace, non mi piace” in un giudizio critico secondo me c’è un passo da compiere, e il critico – in tutti i campi, non solo nel cinema, ma nella letteratura, nell’arte, nella musica – aiuta a capire meglio i pregi, le qualità e anche i difetti di un’opera.
Poi ognuno ha i propri percorsi preferenziali, che possono essere anticipati dagli algoritmi. O forse no: perché io continuo a pensare che uno ogni tanto voglia farsi delle sorprese.
Internet ha permesso la nascita di un’epoca d’oro della critica cinematografica: è d’accordo?
C’è molto più lavoro critico di qualità, ma non soltanto perché c’è internet. Si conosce maggiormente il lavoro critico attraverso internet, una volta si doveva essere abbonati alle riviste, adesso c’è maggiore scambio di informazioni. Da qui a dire che internet ha il merito di questo aumento di lavoro critico però, andrei coi piedi di piombo. Certo, una volta bisognava essere accettato su una rivista per scrivere, adesso uno si apre un blog: ma da qui a pensare che quel lavoro sia un lavoro critico di qualità, ce ne passa.
Un film italiano dell’anno scorso da salvare?
Sicuramente Dogman, poi un film molto interessante è Gli indesiderati d’Europa, che ripercorre la strada fatta da Walter Benjamin quando stava cercando di scappare dalla Francia occupata per andare in Spagna. Il film di Alice Rohrwacher, il film di Garrone, il film dei fratelli D’Innocenzo, La terra dell’abbastanza, uno degli esordi più interessanti della stagione. Un altro bel film era Sulla mia pelle, sul caso Cucchi.
Un film da dimenticare dell’anno scorso?
All’inizio dell’anno ricordo che me l’ero presa con Questione di karma, che mi sembrava abbastanza una scemenza. Però delle volte sembra di sparare sulla Croce Rossa parlare male di certi film. Ammetto che forse esagero, ma dimenticherei Loro 1 e Loro 2 di Sorrentino, soprattutto perché da Sorrentino mi aspetto qualcosa di più ricco, di più “spesso”. Invece quel film mi sembrava proprio che cedesse a tutti i suoi vezzi.
Paolo Mereghetti © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Nella media i film di oggi sono migliori o peggiori rispetto agli anni ’60 o ’70?
Se devo parlare del cinema italiano, gli anni che vanno dal 1945 al 1965 / 70 sono gli anni più ricchi del cinema italiano, perché c’era anche una specie di sintonia tra chi faceva i film e il pubblico. Il pubblico trovava nei film qualcosa che parlava di sé. Pur raccontando storie personalissime – La dolce vita era assolutamente una storia di Fellini – la gente ci ritrovava dentro qualcosa di proprio.
C’è ancora questa sintonia?
Mi sembra che il cinema abbia perso la capacità di farsi tramite tra il mondo e lo spettatore. Una volta c’era, adesso sempre meno.
Poi se penso agli ultimi 30, 40 anni, penso che ci sono state delle cinematografie che questo rapporto l’hanno ritrovato: penso al cinema iraniano, al cinema coreano. Il cinema francese spesso questo rapporto non l’ha mai dimenticato.
E il cinema italiano?
Il cinema italiano si è preoccupato soprattutto di ritrovare un rapporto col pubblico pagante – che aveva in qualche modo perso – e quindi in nome di questa popolarità spesso ha sacrificato le idee sul piano un po’ più corrivo del successo immediato. Finendo spesso, e si è visto negli ultimi due tre anni, per stancare il pubblico: sono due anni che il cinema in Italia e il cinema italiano secondo me stanno scivolando… adesso aspettiamo il solito salvatore, il nuovo Zalone, o chi per lui. Ma non è quello, non basta quello.
Siamo nell’epoca della retromania: sono finite le idee?
No, le idee non sono finite, infatti ce ne sono tante. Il problema è che i film grossi, le grosse produzioni hollywoodiane che una volta aprivano la strada al cinema, ormai sono finite in mano a investitori preoccupati soprattutto della rendita dei loro soldi. In questo modo il rischio viene sempre più ridotto.
Non si scommette più?
Una volta si scommetteva su certi film, magari andava male, magari andava bene. Adesso queste scommesse non si fanno più, se si indovina un filone che bene o male funziona, se si trova un supereroe che piace, allora lo si sfrutta fino in fondo. Spiderman l’hanno fatto sette volte, e continuano a farlo ancora, gli Avengers vanno avanti, si incrociano da un film all’altro, qualche volta va bene, qualche volta va male, però è proprio solo una questione di politica economica. Non vogliono rischiare.
Paolo Mereghetti © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Scrive da decenni sul maggiore quotidiano italiano, ha un dizionario col suo cognome: la sente come una responsabilità?
Un po’ di responsabilità la sento, per cui sto anche attento con certi film a vederli due volte, per chiarirmi meglio le idee. Se ho dei dubbi, mi confronto con altri.
Penso però che il mio interlocutore non siano i film, ma gli spettatori che vanno a vederlo. E a loro cerco – soprattutto nelle recensioni – di evitare le facili stroncature, quelle dove ogni tanto ci si accanisce in maniera anche gratuita contro questo o quello, per cercare se possibile ogni volte di spiegare le ragioni che mi fanno parlare bene o male di un film.
Poi uno può anche non essere d’accordo
Uno può dissentire da quello che scrivo, assolutamente: però sia per quello che scrivo sul Corriere, ma anche per le schede che scrivo sul dizionario, non c’è acrimonia nello stroncare un film. Poi qualcuno penserà che per colpa mia un film non incassa…
Infatti: la critica influisce ancora sul successo al cinema?
Ma i critici non contano rispetto ai film! Io cito sempre Il Codice da Vinci, che fu proiettato in apertura del Festival di Cannes una decina d’anni fa e fu stroncato dalla stampa, ma dalla stampa di tutto il mondo. Il film uscì il giorno dopo e portò a casa tutti i soldi che doveva. Io credo che il critico possa aiutare e difendere i film piccoli, quelli grandi vanno per la loro strada tranquillamente.
C’è stato qualche regista che s’è offeso?
Sì, ci sono stati. Qualcuno se la prende. Ho ricevuto lettere di insulti, pseudo minacce, ma minacce in maniera molto amichevole, delle battute. Mi sono accorto però che anche alcuni registi di cui non sempre parlavo bene mi rispettavano. Mi ricorderò sempre: incrocio i fratelli Taviani a un cocktail di un festival “Eh, tu qualche volta parli male dei nostri film…” mi sono sentito un po’ imbarazzato.
Succede
Un po’ succede, sì, però spero di avere fatto capire che c’è comunque il rispetto di un lavoro e casomai la voglia che alcuni registi diano di più. Questo dizionario a Roma l’ho presentato con Valerio Mastandrea ed Enrico Vanzina. Vanzina si è lamentato in pubblico di alcune schede sui suoi film, ma nonostante questo penso che ci sia un po’ di rispetto reciproco. Certo, Ezio Greggio invece è uno che mi odia, mi ha mandato delle lettere di insulti.
Secondo me è una medaglia
Ecco esatto, lasciamo stare. Pazienza, se farà un bel film sono pronto a cambiare idea.
C’è qualche recensione o qualche scheda su cui ha cambiato idea radicalmente?
Sì certo, ho aumentato molti giudizi, per esempio de La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani, che ho rivisto, ma anche di Blow-Up e Zabriskie Point di Antonioni, un regista che non ho mai amato tantissimo, ma a cui va riconosciuto che ha fatto film che hanno lasciato un segno. Poi magari non sono i film che mi porterei su un’isola deserta.
Qualche altro esempio?
La vita agra di Lizzani, che nella prima edizione aveva una stella e mezzo, anche perché per la prima edizione uno i film li fa “sulla memoria”. Quando mi è capitato di rivederlo mi sono accorto che era un film in anticipo sui tempi, adesso ha almeno tre stelle, forse tre e mezzo.
Paolo Mereghetti © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Non è reato cambiare idea
Assolutamente. Tra l’altro, uno dei compiti che mi piacciono di più del mio dizionario e di rivedere i vecchi film. Negli anni ’80 tutti i film postmoderni erano appena usciti e col senno di poi devo dire che da una parte c’era un entusiasmo eccessivo e dall’altra c’era un po’ di stroncatura preconcetta. Rivedendo i film con più calma uno vede che certe cose hanno superato l’esame del tempo e altre meno.
Un classico sopravvalutato del cinema italiano?
Potrei dire alcuni film di Leone, C’era una volta in America mi sembra sopravvalutato.
Scandalizzando un po’ di più direi che io non sono un grandissimo fan né de Il sorpasso né de I mostri. Ma non dico che sono dei brutti film: non sono questi capolavori assoluti che la gente pensa. Avranno tre stelle, tre stelle e mezzo.
Quali sono i registi italiani che osserva con più attenzione?
Tra i giovani Pietro Marcello, Giorgio Diritti, Michelangelo Frammartino, Alice Rohrwacher, Franco Maresco. Garrone e Sorrentino non sono più tra i “giovani”, sono cresciuti. Prima citavo i fratelli D’Innocenzo. Claudio Giovannesi è un altro regista che mi piace, adesso presenterà il film tratto dal libro di Saviano La paranza dei bambini. Spero di non avere dimenticato qualcuno di cui mi pentirò.
“Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! […] Parlo mai di astrofisica, io?”. Da Sogni d’Oro di Moretti in poi, ancora oggi tutti parliamo di cinema, ovviamente anche sui social media: le dà noia?
Che tutti diano il proprio giudizio è sacrosanto. Non è che uno è deficiente. Uno vede un quadro di Picasso, dice “Mi piace” o “Non mi piace”. Ascolta una canzone dei Rolling Stones, dice “Mi piace” o “Non mi piace”. Vede un film, dice “Mi piace” o “Non mi piace”. Però secondo me la critica non è questa: il critico non è il giudice che assolve o condanna le opere, è qualcosa d’altro, un critico è qualcuno che mi aiuta a capire i fili nascosti che ci sono dietro le cose, le ragioni per cui alla fine dico “Mi piace” o “Non mi piace”. La complessità del lavoro che c’è dietro, o la semplificazione che c’è dietro, uno che mi svela se un film è originale, o se è scopiazzato da altre cose.
Netflix in Italia ha prodotto un cinepanettone, una serie “facile” come Suburra, una serie scritta da giovani ma che non dimostra coraggio come Baby. All’estero ha prodotto cose più interessanti: lo fa perché ha una pessima idea degli italiani o perché ci conosce benissimo?
Eh eh, non lo so, penso né l’uno né l’altro, penso che stia tentando di entrare nel mercato. So che ha acquistato una miniserie sulla moda, sul made in Italy, che stanno girando e che probabilmente sarà più interessante. Cercano di entrare sul mercato e fanno quello che possono. Io non sono un grande fan delle serie televisive, e devo dire che ho visto dei cinepanettoni dei Vanzina oggettivamente più interessanti di Natale a 5 Stelle. Ci provano. Nel mio dizionario quest’anno abbiamo “schedato” circa 150 film originali di Netflix.
Di questi 150 secondo me 100 sono da dimenticare, e non sono soltanto italiani. Alcuni sono proprio brutti.
Qualcosa da salvare?
Roma di Cuarón per esempio è un grandissimo film. Su La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen invece ho qualche dubbio, però aspetto con molta impazienza il prossimo film di Scorsese che Netflix sta producendo. Diamogli un po’ più di tempo.
Mereghetti, chiudiamo: mai pensato di fare il regista?
No, mai! Conosco i miei limiti, penso di essere capace di fare il critico, ma mai voluto fare il regista, o scrivere un romanzo, o una sceneggiatura, nel senso che so che per farlo “ci vuole un’altra cosa”. Poi soprattutto per fare il regista ci vuole del grande talento, e so da quel punto di vista di non averlo. Penso di essere capace di fare il mio mestiere di critico. E le assicuro che mi han fatto delle proposte “Ma perché non fa un film con me, un documentario…”.
Grazie, no. A Milano dicono offelee, fa el tò mestee.