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La trama e lo stile

Vanni Santoni racconta “I fratelli Michelangelo”, una saga familiare di 600 pagine: e lo stato dell’editoria libraria italiana

di Gabriele Ferraresi

Dagli Interessi in comune in poi – Feltrinelli, 2008 – Vanni Santoni, classe 1978, toscano di Montevarchi e fiorentino di adozione, è cresciuto anno dopo anno.

Forse è lo scrittore italiano che più e meglio nell’ultimo decennio ha saputo costruire un percorso autoriale senza paraculaggini, ma con fatica, autenticità e costanza.

Il tutto si è tramutato in credibilità tra lettori e addetti ai lavori: accumulata con Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, finito nella dozzina del Premio Strega) e cementata da un’intensa attività giornalistica sul Corriere della Sera e il Corriere Fiorentino.

Oggi Santoni è in libreria con I fratelli Michelangelo, per Mondadori. Non bisogna mai, mai, mai dire le parole “grande romanzo italiano”, per nessun motivo al mondo, ma quello è: poco più di 600 pagine di saga familiare, godibile come i Tenenbaum di Wes Anderson. 

Su I fratelli Michelangelo hai lavorato sette anni: è un periodo in cui abbiamo bisogno di grandi imprese?
Volevo confrontarmi con la misura dei modelli e dei maestri, e ora, non voglio fa’ paragoni imbarazzanti, però ero cresciuto da lettore avendo come riferimenti i grandi romanzi ottocenteschi, il modello era quello. Chiaramente non avevo ancora l’esperienza di un libro sopra le 400 pagine e delle nuove difficoltà che scopri scrivendolo. 

Cosa si complica superate le 400 pagine?
La tenuta strutturale principalmente, se non crei una serie di addentellati sia narrativi che simbolici il libro diventa noioso. Questa cosa si impara solo con l’esperienza.

Maestri cui ispirarsi?
Tutti sanno che Dostoevskij scriveva di settimana in settimana senza sapere dove andare a parare, però le azzeccava tutte: un essere umano normale invece deve provare per capire come fare. Poi anche la tenuta narrativa non è scontata, l’ho imparato con la parentesi dei romanzi fantasy, e la impari facendo dei libri non portati avanti dallo stile, ma dalla trama.

 

vanni santoni intervista sapiens luz

Vanni Santoni © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Tu cosa preferisci?
È chiaro che l’aspirazione dell’autore che si pensa letterario è sempre la style driven fiction, no? Però la plot driven fiction, più umile ma più pratica ha una forte tenuta narrativa. Elmore Leonard è un maestro di quel tipo di scrittura, e lui è addirittura esagerato. Taglia tutti i fronzoli fino all’osso, gli interessa solo la narrazione. Succedono cose in continuazione ed è un fenomeno nello scrivere dialoghi super serrati. Anche Lansdale può essere un altro esempio.

Ellroy ti torna come esempio?
Mi torna, ma non mi sento ispirato da Ellroy. Ho avuto una fase in cui mi sono letto le sue cose grosse, però poi lui alla fine è un noirista, cerca soprattutto quella che potremmo chiamare atmosphere driven fiction, va in un’altra direzione ancora: che mi piace moltissimo, ma non è la mia.

 

A me piace la deriva alla Joyce, in cui i personaggi partono a pensare e ci infili dentro dieci digressioni su argomenti diversi e concatenati… però questo giochetto – se non sei Joyce – per tenerlo insieme è bene che succeda qualcosa nella trama, no? 

 

I fratelli Michelangelo: a che cosa allena concludere un’opera del genere?
Eh, grande domanda. La disciplina francamente ce l’ho sempre avuta, da quando mi sono messo seriamente a scrivere. Tanto sono stato indisciplinato durante la mia giovinezza, quanto quando ho capito che volevo fare i libri sono diventato rigorosissimo, severissimo con me stesso sugli orari. Quello che ho imparato è avere fiducia nella possibilità di trovare soluzioni a situazioni ingarbugliate.

Come se ne esce?
Accumulando moltissimi schemi di possibili situazioni. Se vai a guardare come è strutturato il libro c’è una struttura narrativa complessissima – che non si vede – perché si svolge su quattro diversi piani temporali che sono concatenati in flashback a scatola cinese. E tutti messi in flusso si arriva a una cosa tipo Inception, con un lavoro di pianificazione enorme.

Su Minima & Moralia avevi una rubrica in cui incontravi grandi scrittori e ti facevi raccontare come lavoravano: c’è qualcosa che hai imparato?
Sì, diverse cose. Cominciò tutto perché con i miei amici e colleghi di Firenze – “la scenicchia” – si discuteva di quanto fosse opportuno scrivere: c’era chi sosteneva lo stakanovismo estremo, chi sosteneva che fosse meglio scrivere meno, quando si è ispirati. C’erano varie teorie, ha senso fare dieci pagine in un giorno? Oppure è meglio distillare anche se avresti le idee? Quella rubrica nacque per dare una risposta a queste domande.

Che ti hanno risposto? Ricordo che hai incontrato anche Emmanuel Carrère
Studiando le risposte c’erano molte cose che variavano, tipo il luogo, i tempi, però c’era una cosa che non variava praticamente mai.

 

Con una sola eccezione, Colm Tóibín: diceva che quando scrive un libro si ritira in una baita con una cassa di whisky per due mesi, fa il libro, e poi per altri dieci mesi non fa niente.

 

Mica male
Tranne lui però tutti gli altri orbitavano tra le 4 e le 5mila battute al giorno. Difficilmente si andava oltre: diciamo un par di paginette. Io prima, fino al 2011, quando ho scritto Se fossi fuoco arderei Firenze cercavo anche di farne 10, 15mila e avevo soddisfazione nella produttività. Invece ho imparato a ridurre un po’, a fermarmi prima.

Altri trucchi?
Questa cosa me l’ha detta uno di loro citando a sua volta Hemingway, che si fermava sempre quando aveva ancora cose da dire. Così il giorno dopo non gli costava fatica ricominciare. Sembra una cazzata, ma è una bomba: perché te in questo modo hai già la frase in sospeso e a quel punto vai, riparti in scioltezza.

 

vanni santoni intervista sapiens luz

Vanni Santoni © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Altre cose imparate scrivendo I fratelli Michelangelo?
Sto imparando a scrivere sempre più di giorno. Come disse David Bowie quando gli chiesero la cosa più importante che aveva imparato, “I discovered the morning”.

 

Incredibile, siamo più produttivi al mattino!
Pazzesco eh! Anche se io la morning ancora non l’ho discovered. Però l’afternoon già spacca.

 

Dirigi anche la narrativa di Tunué: come sta la narrativa italiana oggi?
La scena letteraria italiana mi è sempre sembrata molto vitale. Con tutto il male che si può dire del campo editoriale, delle sue storture, perché è chiaro che il nodo principale andrebbe affidato all’antitrust: ed è il monopolio di sistema distributivo e di vendita da parte dei grandi gruppi.

Tu hai il punto di vista sia dei grandi che dei piccoli
Essendo pubblicato da un grande gruppo ne sono felice, perché il libro nuovo lo vedo ovunque; ma quando ho un titolo Tunué che meriterebbe una distribuzione capillare e devo andarmelo a cercare col lanternino, vedo il lato negativo. Questo è il problema principale.

Che cosa manca?
La vitalità c’è, ci sono tante proposte nuove, c’è un ecosistema sano, io direi che si potrebbero elencare una cinquantina di piccole e medie case editrici indipendenti che fanno proposte valide. Forse manca un po’ il sostegno agli autori da parte degli editori per una progettualità sul lungo termine.

 

Di “esordienti dei miracoli” ce ne sono sempre tre, quattro l’anno: poi vengono presi da una major e se non fanno subito risultati convincenti in termini commerciali sono scaricati.

 

Mi diceva lo stesso Vittorio Giardino per il mondo del fumetto: è così anche con la narrativa?
Identico. Vengono di fatto lanciati esordienti come dadi: se fanno “sei”, vanno avanti, sennò no. Molto spesso l’autore ha bisogno di tempo per essere conosciuto e questo porta anche a un’altra stortura, con gli autori che giocano al ribasso rispetto a se stessi perché terrorizzati che il libro possa non venire pubblicato.

Chiaro, uno si adatta alle circostanze
Questo mi sembra un problema, perché abbassa le ambizioni e quindi può abbassare le possibilità che emergano davvero dei grandi romanzi. Di Elias Canetti che si chiude 15 anni per fare Auto da fé, vince il Nobel e saluta il pubblico ce n’è uno, gli esseri umani normali hanno bisogno di conferme, gratificazioni, pubblicazioni.

 

vanni santoni intervista sapiens luz

Vanni Santoni © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Cosa dovrebbe fare un autore per arrivare a pubblicare?
Questo è un mio pallino. Perché nell’editoria, a differenza di altri campi in cui anche al profano è piuttosto evidente quali sono i percorsi da seguire, è tutto frainteso. È come se un tizio – questo lo diceva mi pare Paolo Cognetti – che vuole giocare a calcio professionalmente, per farlo si mettesse in pantaloncini corti, davanti allo stadio di San Siro, aspettando che passi Galliani… questo è pazzo, diremmo tutti.

E giustamente anche
Questo perché nel calcio sappiamo che c’è il vivaio, le serie minori, uno comincia lì, poi viene preso in prestito, poi gioca nelle squadre piccole e poi magari finisce a giocare nel Milan.

 

L’editoria è identica. Con la differenza che girano molti meno soldi.

 

Dove ci si allena per il campionato degli scrittori?
Ci sono le riviste, poi ci sono i piccoli editori indipendenti, poi quelli grossi. Se vai a vedere le biografie anche degli “esordienti dei miracoli”, che so, di Roberto Saviano che uscì direttamente con Gomorra per Mondadori, prima aveva scritto decine di articoli su Nazione Indiana, una rivista sconosciuta ai profani ma notissima agli addetti ai lavori, che in quel periodo era ancora più importante di quanto lo sia adesso, e lui li si formò.

Le riviste letterarie servono ancora?
Le riviste sono anche il luogo dello scouting: a volte insegno scrittura e mi arriva gente anche motivata, anche di talento, che però di questo non sa assolutamente niente e pensa che l’unica strada sia mandare il manoscritto tipo messaggio in bottiglia. Rimango di stucco. Anche perché ormai nelle case editrici arrivano migliaia di manoscritti. Io li guardo pure… 

 

Da Tunué quanti te ne arrivano al mese?
Da Tunué due, tremila l’anno, al mese circa duecento. 

 

E Tunué è medio piccola
Sì, ora fa parte di un gruppo grande, ma è piccola. Alcuni sono anche gli stessi manoscritti, c’è gente che li rimanda per anni, per le major o per le grandi case editrici si possono stimare 5-6mila manoscritti l’anno. Poi anche lì, molte volte sono sempre gli stessi.

Perseverare diabolico, ai massimi livelli
Invece di fare così come si fa? Si fa fa girare il nome: è chiaro che se vedo nella bio di un potenziale autore “Ha pubblicato racconti su Nazione Indiana, Minima Moralia, Crapula, Colla” dico che quantomeno non è scemo, perché si è preoccupato di come funziona la baracca.

È già un buon inizio dici?
Sì, poi è stato vagliato da gente che fa volontariato culturale. Le riviste sono no profit, non è che guardano se il racconto è commerciale, se lo pubblicano è perché l’hanno trovato bello. Infine se gli pubblico il libro so che qualcuno che lo presenta in giro lo trova; è inserito all’interno di una società letteraria. Tutto questo è fondamentale, ma viene frainteso facilmente.

Qual è il fraintendimento peggiore?
Io sono iscritto a dei gruppi di Facebook per aspiranti autori e leggo delle cose sconcertanti, si vede la fissazione “Per pubblicare devi avere gli accosti”, ma per carità.

 

Pubblicare un libro non è come avere il posto in Comune con l’aggancio politico.

 

L’aspirante scrittore medio invece la vede così?
È vero che magari se te conosci l’editor o l’autore importante della casa editrice puoi avere un’entratura per essere letto prima o con maggiore attenzione, però poi se il libro pensano che non si venda, siccome ci va di mezzo l’editor, non si fa uguale.

Il complottismo a livello editoriale
Molti applicano il concetto della raccomandazione all’essere inseriti in un circuito. Invece se un tizio è quello che organizza la rassegna letteraria del suo paese, scrive recensioni su L’Indice e pubblica i suoi racconti su una rivista online, questa cosa mi sta dicendo molto su quella persona. Mi sta dicendo che è già un autore, che quindi potrebbe affrontare la pubblicazione con altre forze: perché una cosa importante quando pubblichi un libro è evitare il bagno di sangue.

Che cos’è il bagno di sangue?
È quando ne vendi zero, oppure sedici copie. Può far ridere, ma conosco e so bene – avendo potuto vedere i dati di libri usciti per major, magari per Feltrinelli, Einaudi o Mondadori – che esistono libri che hanno venduto 72 copie. Ogni tanto ci sono quei libri che non vede nessuno, può succedere che un libro passi completamente inosservato. È chiaro che se l’autore è un po’ inserito in una sua società letteraria…

Aumentano le possibilità che venda qualche copia in più, certo
Quindi all’autore, per stringere, suggerisco di scrivere per una rivista o ancora meglio fondare una rivista. Ti piace tanto la letteratura? Associati a qualcuno e mettila su tu una rivista. 

 

Mai stare da solo, aspettare che il genio emerga dalla stanzetta
Questo penso che sia il frutto tossico dell’epoca del romanticismo, quella cosa dei geni nella stanzetta: le arti sono un’attività sociale.

 

Un confronto, pigliarsi anche gli schiaffi – metaforici – fa bene
Leggersi a vicenda, mettersi in contatto con altri, associarsi anche su cose più pratiche, partecipare per esempio al Premio Calvino, che è un premio che funziona: molto pulito, in cui tutto viene letto anonimizzato, in cui i lettori sono professionisti. Sono gli stessi che ti ritrovi come lettori in un’agenzia letteraria o in una casa editrice, e chi vince pubblica.

Altri consigli?
Io consiglio questo e non la fretta, o lo scrivere manoscritti che poi non fai leggere a nessuno o che proponi con mille cautele inutili… altra cosa tipica, si credono Emily Dickinson, che apri il baule ed è pieno di capolavori. Tendenzialmente non succede. 

 

vanni santoni intervista sapiens luz

Vanni Santoni © Vito Maria Grattacaso / LUZ

 

Con La stanza profonda hai raccontato il mondo dei giochi di ruolo e la sottocultura nerd. Una sottocultura diventata mainstream: si stava meglio prima?
Da un lato mi dà anche soddisfazione. Mi fa tenerezza le gente che magari prima guardava con disprezzo una scatola di D&D e adesso va a fare il live di vampiri al Lucca Comics & Games, lo trovo un po’ ridicolo. Però no, alla fine erano cose belle in cui io ho creduto e passato tantissime ore della mia vita, e quindi figurati, vedere che diventano mainstream mi fa piacere.

Non è mai stato così bello essere nerd?
È vero che era una nicchia ed è vero che se andavi alla High School con i manuali di D&D quelli della squadra di football ti buttavano nella tazza del cesso, ma D&D ha venduto molte decine di milioni di unità, quindi non era così di nicchia. Io il mio debito al nerdom l’ho pagato con La stanza profonda e una saga fantasy, ora mi metto a fare altro, perché bisogna cercare altri stimoli. 

A proposito di fare altro, non ti sei fatto sedurre dalla retromania di questi anni. Pensi che siano finite le idee?
A me il nostalgismo non è mai piaciuto.

 

Nel parlato comune “nostalgico” poi significa un tizio nostalgico di Mussolini, è una parola negativa, ma sai perché non mi piace? Perché non dirime.

 

Nel senso che se mi affido al nostalgismo non mi scalda il cuore solo il mio D&D di quando ero bambino, mi scalda il cuore anche la partita a Monopoli che facevo con lo zio a Natale. Però Monopoli rimane uno sciocco gioco dell’oca che non aggiunge niente, mentre D&D era rivoluzionario.

Certo, a quel punto vale tutto
Idem se ripenso ai miei vent’anni: sì ok, ovviamente i rave erano ganzissimi, però certe serate al bar con gli amici, che si passavano a bere Negroni e giocare a biliardino erano uno spasso. Perché? Perché avevamo vent’anni, no? E quindi potrei mitizzare che so, qualche schifezza di canzone che passava su MTV mentre eravamo al bar… il nostalgismo è mettere tutto sullo stesso piano.

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Non avrei potuto dirlo meglio. È sbagliato mettere tutto sullo stesso piano perché faceva parte della nostra giovinezza, mentre è indispensabile soprattutto quando si fa un lavoro intellettuale, dirimere e dire “Questa cosa è rilevante” o “Questa cosa è solo un consumo culturale di massa”. Il nostalgismo ho sempre cercato di schivarlo.

Siamo in un’epoca post fattuale, vero e falso si sfocano anche e soprattutto sui social media: il discorso ha ancora senso? Si riesce ancora a parlare sui social media?
Sono molto rigoroso, io uso i social per fare promozione. Secondo me è l’unico modo legittimo per utilizzarli. Dire quando fai le presentazioni, mostrare le recensioni, pubblicare articoli. Facebook è proprio un postaccio, mai leggere i commenti, mai rispondere. 

Anche perché quelli che commentano ogni minuto poi non lavorano mai
Il punto è proprio che sono in ufficio.

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